02 luglio 2009

I legami d’acciaio di un operaio fuori moda.

La disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

La vita precaria di Carlo Marrapodi* dopo la tragedia della Thyssen conosce la nostalgia di un presente ignoto e di un passato da rimuovere. “Vivo una realtà amara” - dice con rassegnazione da sopravvissuto - “lasciando la Calabria per il Nord Italia volevo mantenermi nei binari della legalità e trovare un lavoro onesto, che mi permettesse di vivere, senza fare quei guadagni illeciti, che avrei potuto ottenere aggregandomi alle ’ndrine, senza Jacuzzi, né ville al mare, con la paura però di fare un viaggio solo andata e finendo ucciso”. “Invece, conclude il paradosso, lavorando per una multinazionale ho rischiato di finire carbonizzato a Torino, guadagnando infinitamente di meno”.

È stato vano tutto ciò? Dopo il terribile rogo del 6 dicembre che costò la vita a sette persone, questo pensiero si affaccia di continuo nella mente di Carlo Marrapodi da Pazzano (provincia di Reggio Calabria), operaio ThyssenKrupp. A Torino ha condiviso le sue giornate con una piccola comunità del suo villaggio di 600 abitanti, una colonia “ben voluta da tutti”. Le implacabili leggi dei rulli, del produttivismo esasperato, del Pil come unico parametro regolante le vite delle “risorse umane” non ammettono tregue. Neanche se in una fabbrica di un colosso leader mondiale dell’acciaio, in dismissione dove si sviluppano focolai d’incendio, e le perdite d’olio nelle linee vengono tamponate con lo scotch.

La sicurezza ha dei costi alti e può intralciare i processi industriali. E i sindacati e i mestieranti della politica soggiacciono taciti a logiche torbide. “Sanno organizzare, male, il concerto del Primo Maggio. Hanno fatto passerella, insieme ai politici nel giorno delle bare”, soggiunge l’ex operaio della fabbrica dei tedeschi. Lui, Carlo “la scheggia impazzita calabrese” usa le parole come pietre: “Gli operai sono la turbina di questo paese. Ma hanno perso identità. Conosco colleghi che negano di fare parte della classe operaia. I loro ideali sono stati traditi e loro si vergognano. Non c’è quella coscienza di classe degli anni ’70”. Categorie antiquate, da ceto politico. “Poi si chiedono il perché della fuga del voto operaio. In sette anni in corso Regina Elena Carlo non ha mai visto lo straccio di un politico di sinistra, né un volantino distribuito davanti ai cancelli”, constata lucidamente Carlo. “Non sono più di moda, gli operai”. È la risposta che si sono sentiti dare dai dirigenti Rai a Pietro Balla e Monica Repetto, autori del film ThyssenKrupp Blues, che chiedevano lumi sul progetto Doc3, un reportage che non si sa se e quando sarà trasmesso. E non ci si deve meravigliare se oggi votano Pdl, perché crea appartenenza, “Big Jim” (così Carlo chiama Berlusconi) riesce a offrire il sogno delle veline, anche dinto del successo”. E gli altri?”. Siamo visti come alieni. Chi si occupa ancora degli operai I film possono avere un ruolo di denuncia? Servire a qualcosa il mio peregrinare nelle scuole. È una domanda che si pongo tutti i giorni, come altre che popolano il suo cervello, che riconosce che la classe operaia non andrà mai in Paradiso.

L'ex operaio è protagonista dei documentari
Thyssenkrupp Blues e La Fabbrica dei Tedeschi.

Anno Zero: Carlo
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