28 settembre 2010

L.O.V.E., il dito medio di Cattelan

"Qui ci occupiamo di indici, non di medi..." sussurrano negli ambienti finanziari, ammettendo in privato di essersi meritato il vaffa per gli ultimi default che hanno fatto collassare l'economia mondiale. Una mano in cui si vedono le venature, in cui le dita sono mozzate (residuo di un braccio teso di matrice fascista) e resta in vita solo un dito medio post duchampiano. Un gesto a cui anche l'usura della pop art, da Warhol in poi ha sottratto potenza icastica e rappresentativa, ma ancora oltraggioso per i media e per i parrucconi in servizio permanente. Epater le bourgeois si diceva un tempo. Dov'è lo scandalo? L'opera (11 metri di altezza e svariate tonnellate di peso) dell'artista Maurizio Cattelan si chiama L.O.V.E. ed è stata installata in Piazza Affari, davanti al tempio finanziario, la Borsa di Milano, e costata al Comune di Milano 90 mila euro, suscitando una levata di scudi, che ne ha sterilizzato preventivamente l'esposizione. La mostra dedicata al controverso e provocatorio artista contemporaneo, comprende altre tre opere: La "Nona ora" (che raffigura il papa abbattuto da un meteorite), "Il "tamburino" oltre alla "Donna crocifissa" e doveva essere  annunciata da una locandina di un'opera altrettanto discussa, vale a dire "Him" (Hitler che prega in ginocchio), iniziativa che ha suscitato le ire della comunità ebraica, e perciò subito accantonata dal Comune. Il fuckoff di Cattelan, nelle intenzioni dell'eccentrico personaggio, vuole rappresentare la contrarietà ai totalitarismi. Sono stati versati ettolitri di inchiostro, anche se la cassa di risonanza non si è tradotta in boom di visite. Non sempre la regola pubblicitaria del "purché se ne parli" è efficace.  

26 settembre 2010

Manifestazione No 'ndrangheta: il giorno dopo



Sarà ricordata come la marcia dei 40 mila, nata per dire No alla 'ndrangheta. La manifestazione organizzata a Reggio Calabria dal Quotidiano della Calabria è stata dal punto di vista numerico un successo. E non poteva essere altrimenti vista l'adesione in blocco di 580 organizzazioni tra partiti, sindacati, associazioni ecc. Ma andava fatta a monte anche una scrematura qualitativa, senza indulgenze o temere di essere inappropriati e impopolari nel concedere patenti di moralità. Per gli strani incroci della storia, la manifestazione ricade nel 40esimo anniversario della morte dei cinque anarchci calabresi che stavano indagando sulla strage di Gioia Tauro, eliminati nel Lazio. Trame 'ndranghetiste ed eversione nera, corsi e ricorsi. Cortina fumogena, allora come oggi. Scarso comunque il risalto dato all'evento a livello nazionale. Poche righe nei quotidiani ad eccezione del Fatto Quotidiano, l'Unità, Il Manifesto (2 pagine) e la Stampa. E' andata molto meglio la copertura online. Senza dare adito alle piagnonerie, di chi dice che il Sud è sempre bistrattato, lo stesso fenomeno può essere facilmente osservato, ad esempio, per la Woodstock d Beppe Grillo, scarsamente trattata dalla carta stampata, monitorata attentamente sul web (medium più immediato nella raccolta delle impression e degli umori della piazza), che si è svolta quasi in contemporanea. Altre considerazioni affidate al racconto di chi ha partecipato all'happening antimfia.
 
GLI IMPRESENTABILI PRESENZIALISTI
- "L'intento è nobile, ma certe presenze facevano sorridere... o piangere. Presenze «ingombranti». Tra i manifestanti anche l'ex sindaco Scopellitti e l'ex assessore Sarra. C'era in prima fila Alberto Sarra, ex assessore regionale con l'ultima giunta PdL, tirato in ballo dalle inchieste Meta e Crimine come sodale delle famiglie Lampada e Valle, che in Lombardia gestiscono gli affari dei clan De Stefano e Condello; Sarra che nella sua segreteria politica ospitava Gianni Zumbo, al secolo commercialista, nei fatti informatore Sismi e doppiogiochista, informatore dei boss Pelle sui prossimi arresti. Sfilava l'ex sindaco Scopelliti, il miglior amico politico di Sarra, colui che ha fatto entrare gli stessi Condello e De Stefano nell'amministrazione pubblica: perché nella stessa Reggio dove in 1 Ornila manifestavano contro le 'ndrine, ci sono la "Premac" che gestisce la manutenzione dei mezzi pubblici, come i compattatori della spazzatura, creata sotto Scopelliti dai fratelli De Stefano, mentre la famiglia Condello, che i De Stefano aveva combattuto in una guerra da 800 morti, si è aggiudicata gli appalti per il pubblico decoro con la "Multiservizi Spa" (Gianluca Ursini - L'Unità).

IL CAMALEONTISMO DELLA ZONA GRIGIA - Se siamo tutti qui, dove sono i cattivi? E dove i collusi? Dove la zona grigia? Confondono le acque, aggiungono confusione, fumo negli occhi. Come il marinaresco «Facite ammuina», l'ordine che si usava in occasione delle visite a bordo delle autorità del Regno delle Due Sicilie (...). Si è fatta chiarezza definitiva che i collusi sono in mezzo a noi. E perché, comunque, è servita a mostrare la società civile, che c'è una maggioranza di persone oneste che non ne può più, che va assumendo coscienza e coraggio. E che pretende acque chiare. Le pretende da tutti. Anche dalla parte buona della barricata (Mimmo Gangemi, La Stampa).

25 settembre 2010

Caso Montecarlo, la versione di Fini



Domanda da 100 milioni di dollari. Chi alimenta il triste spettacolo autolesionista, il teatrino che viene denunciato dal fondatore e dal cofondatore del partito dell'amore? Una cosa è certa uno dei due contendenti è destinato a soccombere.

23 settembre 2010

La manifestazione e l'ipocrisia


Accade che una manifestazione indetta per dire No alla 'ndrangheta, l'ennesima, nata da un'idea de Il Quotidiano della Calabria, questa volta dopo le bombe alla Procura e sotto casa del procuratore alvatore Di Landro, ottenga la quasi unanimità del panorama politico calabrese e nazionale. Un successo strepitoso, se letto unicamente con il parametro della partecipazione.  Un trasversalismo bipartisan che si è visto in tante altre circostanze, beninteso, che merita una riflessione e dei distinguo.

Come mai, con un dispiegamento di forze del genere, la Calabria sia ancora sotto scacco della criminalità organizzata calabrese è un mistero. Se tutto è 'ndrangheta, niente è 'ndrangheta. Allora occhio ai camuffamenti. Tutto si può dissimulare, mischiare in una melassa indifferenziata con l'adesione massiccia a quella che rischia di diventare una parata e nulla più. L'idea è che spenti i riflettori la criminalità continuerà ad andare a braccetto con la politica, con i suoi infingimenti e le sue ipocrisie ì, e che nessuno chiederà conto della coerenza di alcune scelte politiche a chi aderisce a parole all'antimafia e nei fatti continua ad alimentare continuità con la zona grigia della masso-mafiapolitica, il vero grumo che nessuna inchiesta giudiziaria è ancora riuscito a scalfire. L'iniziativa di daSud serve a distinguere il grano dal loglio.

20 settembre 2010

Onore

Saviano e l'onore. L'inedito che apparirà su Satisfiction in anteprima su Affaritaliani.it

C’è un’accusa, delle tante che mi vengono mosse nella mia terra, che mi fa male. A Casal di Principe i ragazzi mi accusano di avere infangato la loro terra, perché, dicono, ho elaborato un materiale che era noto solo a polizia e magistratura, e ne ho fatto un libro. Un materiale fatto di carte processuali e linguaggio tecnico che ho raccontato con una lingua comune, rendendolo non solo pubblico, ma anche comprensibile, accessibile, persino interessante. E così facendo, dicono, ho portato alla luce quello che doveva restare sepolto. E a Casale, alla loro terra, a loro stessi, ho tolto l’onore. Onore è una parola con cui, io, figlio del Sud, sono cresciuto. L’ho sentita ripetere da bambino e da adulto, nei processi e nelle strade, da amici e nemici. E l’ho usata anch’io.

Eppure ho visto che molte persone, persone oneste, persone che stimo, hanno difficoltà a usarla. La sentono come una parola che hanno monopolizzato le cosche, facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso.

Le mafie si sono abusivamente appropriate di questo termine, ne hanno saccheggiato il significato associandolo a concetti come il terrore, la paura. L’uomo di onore è l’affiliato, l’uomo di mafia. Ma io voglio riscattare la parola onore, voglio restituirle il suo significato originario, sequestrato dalle mafie.

L’onore, quello vero, è quello che ti fa andare avanti a prescindere dalle conseguenze, solo in virtù di un fortissimo senso di giustizia. L’onore è qualcosa che va al di là della tua reputazione, che va al di là del fatto che esiste un codice della tua terra. No, l’onore è qualcosa che esiste indipendentemente da cosa sei costretto a fare, da cosa ti dicono. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un’ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l’onore l’ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: “Tu non puoi capirlo, dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un’eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell’onore e dell’orgoglio”.

E il Sud questo te l’insegna. Io sono meridionale e in qualche modo ho imparato dalla mia terra questo. E ho usato la parola onore, questa parola considerata ormai impronunciabile e che invece fa riferimento a qualcosa che ti porti dentro e che segui al di là delle dinamiche del calcolo dei costi e dei benefici.

Agisci perché è giusto. E comprendi che l’onore è qualcosa che esiste dentro di te.

Io ho usato la parola onore quando ho parlato di don Peppe Diana, trucidato perché aveva voluto parlare invece che tacere.

Ho usato la parola onore a proposito dei lavoratori africani, immigrati, che soli hanno osato ribellarsi al potere delle mafie, scendendo in piazza per difendersi, a Castel Volturno, a Rosarno.

L’ho usata a proposito dei soldati italiani, morti a Kabul, giovanissimi e con famiglia, partiti soldati dal meridione verso terre lontane e pericolose per un calcolo saggio e dissennato, alla ricerca di benessere e dignità.

L’ho usata anche per parlare dei pugili, dei campioni del mondo Domenico Valentino e Roberto Cammarelle, della loro forza disciplinata dalla ragione e piegata dalla volontà, ma anche per i ragazzi che si allenano nelle palestre per dilettanti, senza promesse di soldi, tra rinunce e fatica, rispetto della sconfitta e lenta costruzione della vittoria. Ho usato la parola onore e intendo usarla ancora. Ma onore non è l’unica parola che abbiamo smesso di usare.

La mafia per esempio ha saccheggiato tantissime parole. Anche la parola amico, «lui è l’amico degli amici», dicono. La parola famiglia. Ci sono altre parole, di cui ci vergogniamo, di cui abbiamo perso il significato, e che devono tornare a essere nostre. Perché la parola è il bene più grande, per uno scrittore, il più potente. La letteratura è un atleta, scriveva Majakovskij, e anche per me le parole dei veri scrittori hanno sempre la forza di correre, superare ostacoli e non smettere mai di combattere.

18 settembre 2010

IL TELERINCOGLIONIMENTO E’ GLOBALE



http://www.voicepopuli.it/italiano/index.php/archives/2010/09/17/il-telerincoglionimento-e-globale/

Telerincoglionimento: Forma di malattia cerebrale dovuta al rintronamento da televisione spazzatura, che non permette a chi la guarda, l’uso del cervello. Il cervello viene completamento assorbito dai programmi tv, si atrofizza, diventa piccolo e cade in uno stato di incapacità che rasenta il coma. E’ un coma vigile, dove la flebo è il telecomando e la Bibbia Tv Sorrisi e Canzoni. I più colpiti sono adolescenti, bambini, casalinghe, vecchi e stranieri. Ci si aggrappa ai Telegiornali come i malati al bollettino medico. Si sogna di far parte di programmi spazzatura come “Grande Fratello” o “Uomini e Donne”. Si aspetta su ogni canale l’arrivo dei Messia politici che non lesinano apparizioni. Essi coi loro occhi ruotanti e le loro litanie sempre uguali ed incessanti, ammorbano il cervello ipnotizzandolo. Si annulla la volontà e la capacità di ascoltarsi. Negli Stati Uniti è ad un livello avanzato. Lo dimostrano i tanti chiapponi presenti sul Territorio statunitense. Più la chiappa è larga, più il divano tende ad allargarsi ed assumere la tipica forma binatica. E lo dimostrano i tanti poveri. Non importano più il futuro, la famiglia od il proprio lavoro. Ciò che conta è apparire. Dalla 12enne alla vecchia di 83 anni che partecipa a “Velone”, l’importante è andare in Televisione per diventare famosi. Non interessano i problemi comuni. Mafia, Corruzione e Malasanità sono cose che non riguardano. Cultura e Libri passatempi del Medioevo. Ciò che importa è mostrare la coscia, la chiappa, la tetta, l’abbronzatura, i tatuaggi, l’orgoglio del macho, il rigonfiamento alla mutanda. L’unica ragione di vita diventa andare a Mediaset o in Rai. Per ragliare. Per belare. Per cazzeggiare.

La malattia è in aumento vertiginoso. L’ultimo bollettino ha visto isterismi di massa per l’uso zoppicante del digitale terrestre. Continue rassicurazioni martellanti arrivano dal Canale 5 che dà istruzioni su come assicurarsi la visione nitida e perfetta di tutti i canali.

Come combattere questa malattia?

L’antidoto è semplice. Si dovrebbe buttare il Televisore. Ma non tutto ciò che si mostra in Televisione è da buttare. Quindi non si dovrebbero guardare i programmi spazzatura, che però contengono messaggi subliminali fortissimi che hanno immobilizzato la popolazione. Uno di questi, per teenagers, impossibile da bloccare. La soluzione per un risveglio di massa è violenta. Non ipotizzabile se non con un’azione che non sto qui a spiegare. Dovrebbero sparire dalle Televisioni sia pubbliche che private quasi tutti i Telegiornali, i Reality e molti canali sul satellite. Ciò risulta impossibile visti anche gli enormi debiti accumulati dalle società che gestiscono e producono questi programmi.

Qualche ricercatore dovrà prendersi la responsabilità di studiare un antidoto efficace al Telerincoglionimento. Altrimenti calerà fortemente la percentuale di cervelli pensanti.

16 settembre 2010

DIMENTICATI. VITTIME DELLA ‘NDRANGHETA

La storia e le storie delle donne e degli uomini assassinati in Calabria dall’organizzazione criminale più segreta e potente del mondo

Un mugnaio con la passione per gli orologi e un testardo assessore comunale, il bassista di un gruppo reggae e un medico con il vezzo della scrittura, un dirigente del Partito comunista che insegna
Lettere e un fotografo con un passato da calciatore, un commerciante di auto che non fa lavorare nessuno in nero e un funzionario di banca che chiede garanzie quando concede i prestiti, una professoressa delle scuole medie e uno studente nigeriano che fa il parcheggiatore abusivo… in un Paese normale, queste donne e questi uomini – magistrati, attivisti politici, carabinieri, comuni cittadini e addirittura bambini – rappresenterebbero solo un ordinario spaccato di società civile. Ma in Calabria, nell’estrema periferia italiana, anche i modi di vivere e di essere più diversi possono essere accomunati dallo stesso, inaccettabile, destino: quello di essere uccisi dall’odio e dalla vendetta della ’ndrangheta. Accade così, alle vittime della più segreta e potente organizzazione criminale del mondo, di morire due volte. Prima assassinati dai clan e poi dimenticati da uno Stato che non ha saputo difenderli e, troppo spesso, dai loro stessi concittadini: le persone che, attanagliate dalla paura, hanno attraversato e attraversano le loro stesse strade, piazze e città.
Dimenticati è un libro dedicato alla storia e alle storie delle vittime della ’ndrangheta: cittadini innocenti da sempre in attesa di verità e di giustizia. Vicende personali a cui la narrazione di Danilo Chirico e Alessio Magro rende finalmente un volto. Affinché il diritto-dovere della memoria torni a essere patrimonio di tutti. E perché il movimento antimafia calabrese, capace di straordinarie battaglie per l’affermazione dei diritti civili e sociali, non sia più soltanto un grido destinato a restare inascoltato. Il libro uscirà il 6 ottobre prossimo.

15 settembre 2010

Il tricolore vilipeso



Non c'è bisogno di essere nazionalisti per constatare il livello socioculturale del nostro paese.  Che paese è quello in cui si viene allontanati per aver esibito un tricolore e invece si può manifestare con la bandierà di un'entità geografica inesistente come la Padania? Uno degli ossimori e del malostume ormai consolidato, in un paese in cui il leader della Lega Nord può vilipendere la bandiera e si possono allontanare dei manifestanti con l'accusa di essere dei provocatori, con la scusa dell'ordine pubblico, mentre le violente parole dei vari Borghezio e Salvini vengono viste come folclore acquisito e fanno parte del patrimonio lessicale e politico di un paese. 

13 settembre 2010

Libri da non peredere - Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa



dal blog http://falsoidillio.splinder.com/

Romanzo italiano. Un gruppo di ragazzi diventa adulto nell’Italia del Sud durante gli anni ’80: si incontra, affronta delle prove, misura gli ideali con la realtà, entra in conflitto con la generazione precedente con cui consuma una spaccatura completa, fino a sfiorare l’autodistruzione e ad accedere, previo evento sacrificale (l’overdose), all’età adulta.

Romanzo di formazione con pretese di affresco sociale di un’epoca e di radicale presa di posizione politica sull’oggi. Come è tipico del genere, la prospettiva è di tipo eroico. Il protagonista e i suoi amici si trovano a vivere uno snodo decisivo non solo della propria vicenda, ma della vicenda collettiva, un momento in cui la storia precipita e della quale i protagonisti sono agenti e narratori assieme. In quell’istante la storia accede a una finestra di “conoscenza di sé” costituita dagli occhi dei ragazzi, uscendo dalla pura inconsapevolezza animale. Il protagonista è il centro di questo movimento interno, che divide il tempo eroico dalla prosa del mondo. Il tempo eroico coincide con la giovinezza. Come da genere, tutto ciò che è importante accade a 20 anni (qui, addirittura, a 16 è già tutto finito): il resto è una meditazione sulla sconfitta, o una coazione a ripetere, o una fuga, o un seppellimento. Nella più tipica visione romantica, a 20 anni vivi (e in genere sei sconfitto, come si conviene in una concezione piuttosto generosa di sturm und drang), a 40 ti annulli nell’oblio per non pensare a ciò che è successo, a 60 sei di fronte a un muto terrore.

Questa struttura rende debordanti gli elementi propri del romanzo di formazione rispetto a quelli di critica socio-culturale, e questo malgrado il grande sforzo di contestualizzazione operato attraverso massicci inserti di cronaca del tempo, televisione e musica pop in primo piano. Non c’è traccia, del resto, di alcuna meditazione interna sulle questioni che la ricostruzione di una verità storica "romanzata" potrebbe sollevare, né alcuna consapevolezza dei limiti narrativi e mitografici e nessun conseguente allestimento di una macchina in qualche modo autoriflessiva (come ad esempio in De Lillo, che in Underworld non si limita certo a costruire un fondale ingenuamente tendenzioso o rancoroso). Qui, quello che è accaduto è ciò che il protagonista ricorda e il suo punto di vista di oggi, mero sviluppo di quello di allora, “sa”, riferisce i fatti così come si sono svolti, senza residui. La blanda metafora dell’indagine che il narratore usa per riprendere i fili del passato, mandando il protagonista a interrogare i superstiti di allora, ha un valore di puro escamotage narrativo e non comporta alcuna presa di distanza. Il postmodernismo e le sue domande, in altri termini, non aono attraversate né propriamente ignorate, sono usate in modo spurio, una sorta di salvacondotto per adottare un atteggiamento utilitaristico: la letteratura entra nella storia collettiva a piedi uniti in cerca di un risarcimento, ma è dubbio che lo possa trovare, e restare letteratura.

Malgrado l’accento messo sulla “formazione dell’eroe”, la motivazione del testo non sta nel movimento in avanti, ma in quello all’indietro, cioè nella rimemorazione vissuta come terapia, attraverso l’approdo alla scrittura come salvezza e privilegio spirituale. Il protagonista che ricorda è così un concentrato di disincanto, amarezza e consapevolezza. Qualità, la consapevolezza, di cui sono ricchissimi i protagonisti giovani e del tutto privi gli altri, i padri in particolare, cui pur dovrebbe essere concesso il beneficio del dubbio (in fondo anche loro hanno avuto una giovinezza; ma in questa prospettiva la giovinezza che vale è solo quella di chi racconta).

L’idea di essere stati toccati da un’epifania decisiva poi ritrattasi per sempre (e, più al fondo, l’idea che la vicenda personale rifletta la vicenda storica, e ancora di più l’idea che la storia fluisca attraverso un corso principale che coincide con la vicenda propria, ad esclusione di quella altrui, cioè di chi ne viene solo giocato e la vive ai margini, non comprendendola), questa idea si accorda con la divisione del mondo noi/loro - di tipo propriamente morale, se non addirittura estetico - e con la prospettiva ideologica che attraversano il testo.

La chiave d’accesso per l’ideologia del testo è quindi la sua tonalità emotiva di fondo. Su tutta la vicenda è dominante il suono aspro del rancore, che continua a risuonare a lungo nelle orecchie dopo aver posato il libro. Fino a che, sfumando l’impressione, il lettore può domandarsi da dove provenga e come si giustifichi tutto questo rancore. Cos’è successo di così sconvolgente ai personaggi, durante quel loro sedicesimo anno di età, da segnare le loro vite per i decenni successivi? E, fuori di metafora, cosa è successo al Paese?

Che gli anni Ottanta rappresentino uno snodo fondamentale del nostro recente passato collettivo - e uno snodo in cui l'esaltazione di alcuni e la tragedia di altri si sono mischiate fino in fondo - è una nozione piuttosto assodata; quel che conta è però la lettura che ne dà l’autore e se sia o meno adeguata alla materia con cui si misura. Con chi ce l’ha il protagonista? Dove va rintracciata l’origine del suo rancore? Ce l’ha coi padri? Ma, a ben vedere, non c’è padre in questo libro che non brilli per mediocrità: sono piccoli uomini che mandano avanti piccole imprese, si fanno abbagliare dal denaro, cedono al lato oscuro ma persino nel male sono dilettanti, più adatti a una commedia all’italiana che a un dramma storico. Oppure la ferita ha sede nell’ennesima ricostruzione feticizzata di un’adolescenza “bene” – i ragazzi sono tutti benestanti provenienti da famiglie di recente ricchezza - fatta di feste, giradischi ed eccessi alcolici, di primi amori, di sesso e tradimenti, di incomprensioni tra genitori e figli che è improbabile caricare di toni epocali, ma meglio si adatterebbero allo studio dello psicologo di famiglia? Oppure si tratta della gita nei quartieri bassi che li ha sconvolti? Gli assai provvidenziali quartieri malfamatissimi, le classi basse in cui i giovani bene si addentrano come Conrad nel cuore di tenebra, con un misto di cattiva coscienza piccolo borghese e coloniale e di brivido della perdizione, qui nella forma della droga e di qualche figura di malaffare criminal-politico-affaristica, in ossequio ai gusti dei tempi: questa immersione “là dove i rapporti di forza sono più evidenti” (si sa, i poveri sono più rozzi ma tanto più “veri” di noi…), nel marcare in modo inconfondibile la loro provenienza di classe, condurrà tutti i protagonisti a diverse forme di sconfitta, più o meno pacificate, che solo l’enfasi narrativa riesce a presentare nella forma del dramma e che somigliano più un normale ri-accomodamento nei privilegi di provenienza.

Ma si può comprendere un ventennale rancore portato su scala storica con la scoperta della povertà? Come si passa dal piano degli eventi banalissimi che coinvolgono i protagonisti, tutti riconducibili all’ennesimo piccolo dramma familiar-borghese del passaggio all’adolescenza, al piano della condanna politica e sociale, qui ben condita dagli ingredienti del cospirazionismo, della consueta denuncia degli intrecci politica-affari criminalità mischiati con l’orrore televisivo del Drive-in e con la vulgata della società dell’immagine che ci ha resi tutti subumani?
In questo quadro le cose non tornano a sufficienza: troppa finta disillusione, troppo immotivato senso di sconfitta, troppo reducismo senza battaglie, in misura delle esperienze ordinarie che sono narrate, per quanto enfatizzate a dismisura dalla tromba del narratore. C’è una maniera, che non è nella scrittura ma nel tono, come se il rancore manicheo tenesse alla larga e nobilitasse, nella forma della rinuncia consapevole e dell’estetica del vagabondaggio esistenziale, la percezione di un altro sentimento, più corrosivo e inquietante: l’impotenza.
Non è solo impotenza personale opposta a onnipotenza percepita “nell’avversario”: è piuttosto un tratto comune e diffuso, una somma di impotenze che si può generalizzare e attribuire facilmente a un intero ceto e la cui origine pratica - effetto secondario, en passant, proprio di quel passaggio storico che il libro pretende di affrontare ma di cui coglie solo la superficie - è la percezione tanto netta quanto negata dell’assenza o perdita di ruolo sociale del narratore in quanto “creatore originale” e della sua riduzione a produttore seriale di storie, e di conseguenza dell’impossibilità di “essere parte attiva del ciclo sociale”: impossibilità con chiari risvolti etico-politici, che andrebbe riferita tanto a una classe, quanto a uno strato professionale, quanto a una generazione.
Un sentimento e una  poetica, questa dell’impotenza, che si esprimono in modi molto diversi nella letteratura italiana di questi anni, sintomo di un’immaturità politico-letteraria di fondo: come incapacità di attraversare la soglia adolescenziale ed entrare nell’età adulta che degenera in depressione (Giordano), come maniacalità (Nove), come feticismo e fissazione nell’infanzia e nella sua fine (certo Mari e il primo Moresco); come velleitarismo vitalistico (ancora Moresco, in parte Sorrentino); come esibizionismo onanistico (Scarpa). E a volte, appunto, come rancore manicheo.

Ecco, il rancore manicheo che attraversa tutto questo libro sembra funzionare come paravento, come occultamento dell’impotenza generale. Un paravento che tiene dietro tutta la ricostruzione storica del Paese, svolta all’insegna del moralismo, di un radicalismo privo di materialità, del tutto estetico. Questo il quadro che ne esce: noi eravamo i buoni e i migliori ma siamo stati sconfitti e oggi siamo saggi e depressi, incattiviti e un po’ ipocriti; quelli sopra di noi sono mostri volgari e arricchiti e quelli sotto ingenui subumani ormai perduti. Non è ciò che il medio acculturato di sinistra italiano oggi pensa a ogni passo? Un nemmeno troppo impegnativo apparato di autoindulgenza, incapace di andare al fondo, preoccupato di giustificarsi e abile nell’innescare meccanismi autoricattori nella forma di un "impegno" privo di sostanza o dell’indignazione di maniera nei confronti dei bersagli più ovvi, l’amarezza da reduce di guerre mai combattute che lamenta lo sfascio del Paese ad opera di affaristi senza scrupoli e signoramia, in definitiva, si salva il culo.

b.georg

11 settembre 2010

La subcultura di Miss Italia

Ha ragione don Andrea Gallo, prete di strada nel lanciare il suo anatema sul concorso di bellezza più famoso della Penisola diei famosi: Miss Italia. "Viviamo ormai in un clima di subcultura - afferma all’ADNKRONOS il sacerdote fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto, a Genova - Le belle gambe piacciono a tutti ma le donne vanno celebrate per la meritocrazia, per la loro emancipazione». Secondo don Gallo, che da tanti anni aiuta le persone nel disagio sociale, «di fronte a programmi che mercificano la donna dovrebbe scattare un’indignazione collettiva, un’arrabbiatura. Ormai anche la donna è diventata oggetto di commercio e in questo modo si vanifica la vera bellezza dell’estetica".

10 settembre 2010

L'EMORRAGIA DEL TG1


850 mila spettatori in meno rispetto allo stesso giorno di un anno fa; certificati i dati di aprile, che sembravano fantascienza; quota shock del 25,5% di share, mai il Tg1 era caduto così giù; un pubblico clamorosamente anziano, e con un bassissimo livello di studio; la nuova emorragia provocata da Enrico Mentana, e quei 700 mila ascoltatori che ogni sera dalle 19.56 alle 20 abbandonano Rai1 per fiondarsi su La7; l'editoriale di martedì sera, e quei 400 mila cittadini che cambiano canale nel giro di centoventi secondi esatti.

P.s. Editoriali come quello pro-voto hanno determinato una fuga dal contenitore informativo della rete ammiraglia. Chissà come verrà trattata la laida campagna acquisti che farà da zavorra al governo nato con la più ampia maggioranza parlamentare. Pare sia stato già messo a segno un colpo alla Ibrahimovic: Totò Cuffaro, direttamente dall'Udc al Partito della libertà. Sempre più provvisoria.

08 settembre 2010

Porcellum e porcili

Che il Porcellum sia da cambiare non v'è dubbio. E' più difficile che lo faccia l'attuale classe dirigente. Un motivo in più è fornito dall' europarlamentare Angela Napoli, di recente passata sotto le insegne di Futuro e libertà. "Non escludo che senatrici o deputate siano state elette dopo essersi prostituite", h rivelato al programma di Klaus Davi Klauscondicio. Come criterio di selezione non è affatto male, troppo facile fare il collegamento con i riferimenti alla mignottocrazia sollevati da Paolo Guzzanti. Cosa c'entrino il merito e le competenze in tutto questo non è dato saperlo.  

07 settembre 2010

Bruno Vespa e la scrittrice velina


dal blog gadlerner.it

Ero seduto anch’io sul palcoscenico della Fenice di Venezia, sabato sera, quando d’improvviso abbiamo visto illuminarsi la faccia di Bruno Vespa: “Assegniamo ora il Premio Campiello opera prima a Silvia Avallone, autrice del romanzo ‘Acciaio’, e prego la regia di inquadrare il suo strepitoso decolletè”. Non pago, quando s’è ritrovato al fianco la giovane scrittrice vestita di chiffon, Vespa ha indugiato sul tatuaggio che ne orna una spalla, gliel’ha cinta e –rivolto alla platea degli industriali veneti promotori del Campiello- ha soggiunto: “La sto toccando e vi assicuro che nonostante il grande successo già conseguito, vibra ancora d’emozione”.
A quel punto ho incrociato lo sguardo con quello allibito di Michela Murgia, la trionfatrice dell’edizione 2010, seduta accanto a me. Con la sua autorizzazione, riferisco l’istintivo commento sussurratomi dall’ottima autrice di “Accabadora”: “Ma come è possibile? Vespa si comporta come un vecchio bavoso!”.
Per ciascuno degli altri scrittori intervistati fino a quel momento, naturalmente, le domande di Vespa vertevano sul contenuto dell’opera presentata, con brevi divagazioni riguardanti l’attualità o le esperienze di ciascuno. Davanti alla Avallone (classe 1984, dunque giovane, ma non certo una bambina) l’atteggiamento è cambiato. Il libro è passato decisamente in secondo piano, quasi che il maturo maschio italiano di successo e benpensante –dimentico della sua professione- in un tale frangente si ritenesse autorizzato alla deroga protocollare: la pupa ha ben altro da mostrarci, cosa volete che me ne importi se è una scrittrice di valore? Sciambola, mica perderemo tempo a intervistarla come un Carofiglio, un Pennacchi o una Pariani qualsiasi!
Naturalmente in un premio letterario francese, tedesco o americano sarebbe stato inconcepibile una simile disuguaglianza di trattamento; e il professionista che per avventura vi fosse incorso, si sarebbe beccato una rispostaccia seduta stante. Silvia Avallone invece vive in Italia, dunque si è limitata a confidare più tardi il disagio provato in quella cerimonia, trasmessa su Raiuno. Noiosa, forse, ma non meritevole di essere vivacizzata da arrapamenti senili in una sede impropria. Al Premio Campiello, senza dubbio uno dei più seri e prestigiosi concorsi letterari del nostro paese, non sono mai state richieste le misure seno-vita-fianchi degli scrittori. E il fatto che quest’anno lo abbiano vinto due giovani donne di indubbio talento come la Murgia e la Avallone, conferma l’anacronismo di cui Vespa è portatore inconsapevole.
Riteneva di effettuare una modernizzazione del linguaggio televisivo, ormai più di dieci anni fa, quando inaugurò la moda di invitare signorine taciturne e ornamentali come sottofondo dei dibattiti fra uomini politici. A differenza di centinaia di migliaia di lettori, per lui la toilette della scrittrice viene prima del suo romanzo.
P.S. Vorrei prevenire un’eventuale replica fuori luogo di Bruno Vespa: “Tu mi attacchi perché non hai vinto il Campiello”. Gli faccio notare che la mia mancata vittoria era largamente prevedibile, giustificata dal valore di Michela Murgia e degli altri concorrenti. Il suo comportamento invece non era né prevedibile né tanto meno giustificabile.

06 settembre 2010

Il condannato a morte Saffioti



Gaetano Saffioti è l’imprenditore testimone di giustizia che ha denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori. Vive da recluso da almeno 8 anni. In quest'intervista a Presa diretta di Riccardo Iacona ha spiegato bene le dinamiche della 'ndrangheta. "La ndrangheta è territorio suo... si paga la tassa, non è il pizzo” dice Saffioti: qui il controllo del territorio è loro. Loro (le famiglie degli Aquino, dei Pelle, dei Sorgiovanni...) decidono chi assumere nelle imprese, da dove comprare i materiali. Sono peggio dei terroristi, e bene informati dei tuoi movimenti bancari (peggio dell’FBI), perchè hanno amici nei comuni, negli assessorati e nelle banche. Soffiati è costretto a vivere recluso da 8 anni “io sono condannato a vita, la ndrangheta non dimentica".

03 settembre 2010

Zucconi: "Ma a che cosa serve Facebook"



Pochi giorni fa il giornalista di Repubblica Vittorio Zucconi scriveva sul suo blog: "A riprova della mia ormai totale obsolescenza culturale e irrecuperabile arretratezza senile rispetto a “noi giovani”, nel leggere delle ultime polemiche sulla politica di privacy di “Facebook”, un pensiero osceno mi folgora: ma a che cazzo serve Facebook, a parte riempire di soldi quel “nerd” irritante del suo inventore Zuckerberg?".
Non ha tutti i torti.
Ora, partendo dalla considerazione che la popolazione del social network è pari a quella di un continente da 600 milioni di abitanti, ci sono intere fasce d'età escluse dal fenomeno, che non hanno accesso a internet e denotano un enorme analfabetismo informatico. Quando si parla in termini assolutistici del futuro delle nuove tecnologie e sul loro impatto globale, bisognerebbe tenere conto anche di questo. Invece molti osservatori, soprattutto americani insistono nel tralasciare il fatto che in termini numerici globali gli internauti sono una minoranza rumorosa. 

02 settembre 2010

E pensare che "erano antropologicamente diversi"


La giovane esponente del PdL Francesca Pascale stava preparando pullman di facinorosi, torpedoni di contestatori pronti ad avventarsi contro  il presidente della Camera Gianfranco Fini a Mirabello. Il tutto in combutta con il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Ecco l'humus da cui proviene questa giovane assessora napoletana, indicata fino a poco tempo fa come vicina al parlamentare ex An. A suo tempo le femministe di Farefuturo avevano aspramente criticato il velinismo in politica, la Repubblica delle Veline. Chi la fa l'aspetti.  C'è sempre qualcuno più realista del re.

01 settembre 2010

Quel pasticciaccio brutto dell'Expo


Doveva essere la panacea di tutti i mali, la leva per risollevare la disastrata economia italiana. Rischia di trasformarsi nell'emblema dell'immobilismo italiano e dell'incapacità di progettare un futuro, tra le liti dei ras locali nelle immancabili guerre di spartizione, in un flop . Il ministro Tremonti, cui spetta la facoltà di aprire i rubinetti pubblici, non ha mai proferito verbo sull'Expo. Nel 2008 l’Italia riuscì a strappare conquistò un grande risultato, strappando alla turca Smirne la sede per l’Expo 2015, assegnata a Milano. Pare che i turchi, carpendo odore di disfatta, come scrive Italia Oggi, siano disposti a rifondere i costi sostenuti fin qui e a fornire un risarcimento che potrebbe servire a coprire una congrua somma per lo start-up-risarcimento. L'indiscrezione mette il dito nella piaga: a quasi cinque anni  dall'inaugurazione il progetto soffre un imbarazzante ritardo. Di certo la tanto declamata capacità di innovazione progettazione del Belpaese ne uscirebbe con le ossa rotte.