29 luglio 2009

Il cinema dell'impegno di Mimmo Calopresti. Intervista





Milano al Sud continua a essere vista come la città dove ci sono i soldi, dove si lavora. Magari con contratti scassati, però almeno quelli ci sono. Chi arriva adesso, rispetto alla generazione di mio padre, ha il vantaggio d’aver studiato. Ma è meno forte. Gli immigrati degli anni Sessanta erano forti perché partecipavano a un avvenimento collettivo che ha cambiato l’Italia. Emigrare dal Sud ora è un’esperienza vissuta individualmente.
(Mimmo Calopresti, Intervista al Manifesto 17/07/2009)

Pochi giorni fa, sulle pagine del Manifesto aveva commentato amaramente i dati diramati dallo Svimez, che ritagliano un quadro desolante per il Mezzogiorno d'Italia. Dalle valigie di cartone ai trolley di nuova generazione, la storia non fa salti. Preferisco il rumore del mare, secondo lungometraggio del regista calabrese Mimmo Calopresti, aveva analizzato il fenomeno dei flussi migratori e dell'incomunicabilità tra le due Italie, oggi, mentre si ritorna a parlare di questione meridionale, la pellicola (oltre a essere uno spot dei luoghi di origine delle riprese) rimane di grande attualità e mantiene inalterato il messaggio profondo dell'appartenenza individuale di ogni singolo destino. Al di là del fatalismo, spesso nichilista che circonda le esistenze dei Sud del mondo. In vacanza promozionale in Calabria, Calopresti si concede una chiacchierata distensiva a tutto tondo.

Fino a qualche tempo fa si accusava il cinema italiano di non voler fare i conti col presente e con la realtà contemporanea. Film come Gomorra, Il Divo, prima ancora Il Caimano, documentari, come la Fabbrica dei tedeschi denotano quanto sia claustrofobica questa visione. C’è una ripresa del cinema impegnato, oppure è un filone mai interrotto?
Il cinema cerca di entrare nel dibattito del paese in qualche maniera. È una fase particolare in cui il cinema cerca di stare nella realtà, di capire i chiaroscuri. Non è più il momento in cui il cinema è trascinante come nel neorealismo, però è pur vero, che vengono fuori delle cose che coinvolgono tutti e fanno discutere. L’immaginario, la trasformazione della realtà, l’approfondimento del reale fanno parte della potenza del mezzo cinematografico. In fondo, il cinema sovrasta, racconta la storia delle persone. Prende le persone e cerca di metterle al centro del mondo.

Il regista che va in fabbrica è un esempio di cinema di responsabilità. C’è, in questo, un recupero rispetto alla mission originaria quando il cinema raccontava i luoghi della produzione?
I parametri della qualità della vita non possono essere legati alla legge dei “rulli”, esclusivamente al Pil. Prima di girare La Fabbrica dei Tedeschi ho vedevo in Tv quello che stava succedendo a Torino e, senza interrogarmi sul da farsi, mi sono catapultato, mi sono lasciato travolgere da questa storia. Ho visto il movimento l’energia, le proteste. È inammissibile che in una multinazionale si muoia per inadempienze. La vita va vista nella sua complessità. Il livello di emotività, di coinvolgimento sentimentale vale meno forse di quello che si produce? Alla fine un film è l’espressione della soggettività di un dato momento. Si recupera l’idea dell’artista che mette al primo posto la parte emozionale. Il problema nei film è quello che tu sei. Dopo di che devi essere in grado di farli i film. Alla fine continui a raccontarti. Un tramonto è quello che sei in quel momento lì. In un’inquadratura si inserisce quello che si avverte in un determinato istante, filtrato attraverso la propria soggettività. Improvvisamente ho visto un posto in cui c’è la bellezza della vita e la possibilità di raccontarla, qui e ora.

Rispetto ai primi lavori, è cambiato lo stile narrativo dei film di Calopresti. È un’esigenza narrativa di sfrondare di liberarsi di alcuni fardelli, o una scelta deliberata?
In genere il regista ha un rapporto contraddittorio, sono entrato in un momento della mia vita in cui qualche volta mi piace andare verso gli altri. In maniera diretta, senza costruzioni mentali, senza sovrastrutture, voglio dirigermi e guardare il mondo in maniera asciutta. La realtà è quello che ti si presenta davanti, senza filtri. Sono molto curioso dalle dinamiche delle vite degli altri.

In una delle molteplici chiavi di lettura della scena finale del film Preferisco il rumore del mare, nulla pare aver senso tranne che il libro della sapienza che Rosario va a recuperare. Solo allora stagliandosi dalla società (nella quale è possibile adombrare le plaghe disperate del Mezzogiorno) acquisisce una sua ragion d’essere. Ritieni davvero che la cultura possa essere l’ancora di salvataggio del Sud?
In questi posti di deserto culturale, in qualche maniera desolati, in cui sembra che Cristo si è fermato ad Eboli ci sono persone che vogliono fare altre vite, andare in cerca di cose diverse, pur essendo numericamente in minoranza. Il loro modo di essere cattura la mia attenzione. Noi saremo sempre una minoranza diceva Nanni Moretti in un film. Io scelgo le persone che mi piacciono, hanno un modo di essere di rapportarsi al mondo che secondo me è più gratificante. Senza pensare che questo debba essere dominante. Esiste e deve esistere quanto un altro mondo che è soddisfacente per altre persone. Tra questi mondi non deve per forza esserci una contaminazione, ma un confronto.

Le decurtazioni ministeriali al mondo della cultura sono un’aberrazione. Si taglia un bene che viene ritenuto accessorio. Che conseguenze potranno avere su larga scala?
I tagli alla cultura sono molto gravi. Noi i film continueremo a farli, non è questo il problema. Si lancia però il segnale che quell’ambito lì non serve, è trascurabile. Invece la tensione, la voglia di fare di esistere tiene unito un mondo più grande, fatto di tante persone che hanno l’esigenza di esprimersi. Non si può pensare che la gente comune non abbia bisogno di vedere un film, di andare a una rappresentazione teatrale, di soffermarsi a guardare una cosa che si crea. L’impoverimento dell’industria culturale rende impossibile tutto questo. Questa logica rivela che un settore è improduttivo, ma è importante. La Marcegaglia dice: “Dovete darci soldi veri” e glieli si concede, idem per le banche. Si interviene in un settore, di cui la gente ha davvero bisogno. Poi si può dibattere su come la cultura abbia disatteso le aspettative. In una serata televisiva che fa un buco quanto spreco c’è? In una serie che fa flop. Attuando lo stesso ragionamento quanto si dovrebbe tagliare nell’ambito televisivo?

L’intellettuale Fulvio Abate ha criticato la tempistica dei corti che avete girato nell’Abruzzo (Calopresti ha girato Perfect Day, n.d.r.) , sostenendo che nei luoghi del sisma dovessero essere presenti ruspe e volontari, non registi o intellettuali. È ingeneroso?
L’iniziativa dei corti sull’Abruzzo è stata una bella pensata . È un’idea con cui si è provato a realizzare delle cose diverse. Ha funzionato, anche se non è cinema nel vero senso della parola. I film bisogna andare a vederli al cinema. Bisognava documentare quello che era successo. E più passa il tempo, più quelle testimonianze assumeranno valore, anche a futura memoria, perché è difficile e complicato e ricostruire. Così tra un anno si potrà vedere se avevamo ragione o torto. Stiamo nel mondo e andare nei luoghi è un modo pasoliniano di intervenire.



Nessun commento:

Posta un commento