03 agosto 2010

Siamo giornalisti calabresi e siamo tutti esposti



tratto da Calabria Ora, 2 agosto 2010

Presto ci spareranno addosso. Perché capiranno che con le cartucce, le bottiglie incendiarie, le telefonate, le minacce mafiose perpetrate nelle loro più variegate forme non funzionano. Siamo giornalisti calabresi. "Infami, bastardi, pezzi di merda" dicono gli stessi mafiosi intercettati nelle carceri. E siamo tutti esposti. Noi che raccontiamo questa terra, e che la viviamo perché è qui che lavoriamo, non siamo come quei "prodi" censurati nel crudo fondo di Mimmo Gangemi su La Stampa del 5 gennaio scorso, i quali "col posteriore degli altri" diventano eroi frapponendo il giorno successivo "mille chilometri di distanza", dopo averci dato lezioni di civiltà" fistigando "l'omertà, le bocche cucite, quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna".

Sono gli stessi "prodi" che ancora oggi tacciono, lasciandoci nella solitudine dei nostri confini a fare quello che loro, privi dell'umiltà d'imparare a conoscere davvero questa terra, avamposto del Mezzogiorno, hanno provato a fare solo per "una sera". Per questo diciamo che tutti coloro che nelle redazioni dei giornali calabresi si occupano di nera o giudiziaria, o che comunque nel loro lavoro quotidiano fanno inchiesta toccando le commistioni perverse fra poteri forti, indipendentemente se rientrino o meno nel novero dei già minacciati, sono sovraesposti.

Qui c'è la 'ndrangheta, che prima di essere l'organizzazione criminale più potente a livello planetario, quella che ammazza e traffica droga, quella che stringe patti con la politica e l'alta finanza, è "cultura". Una "cultura" che noi siamo costretti ad affrontare ogni giorno, nelle aule di tribunale come fuori dalle questure, per le strade, nei bar. Oggi tocca al nostro Lucio Musolino, ieri ad altri colleghi di Calabria Ora, o del Quotidiano della Calabria o di qualsiasi altra testata. Domani toccherà ad altri colleghi ancora.

La Federazione nazionale della stampa porta il nostro caso all'attenzione del capo della Polizia e dei singoli prefetti, mentre solo grazie ad un libro realizzato dai colleghi Roberta Mani e Roberto Rossi o all'amicizia di pochi inviati della grande stampa, qualche testata nazionale dedica poche righe alle nostre vicende.

Sia chiaro al mondo: noi non vogliamo pubblicità, perché le intimidazioni non sono per noi galloni d'appiccicare sulle spalle. Chiediamo solo che la resistenza civile della stampa calabrese tutta - perché in questa sede noi di Calabria Ora vogliamo superare i distinguo e gli steccati della concorrenzialità fra testate - trovi sostegno da una categoria che si ricorda della Calabria solo se viene giustiziato il vicepresidente del consiglio regionale con l'unica colpa di essere un uomo perbene, se i sanlucoti compiono una strage a Duisburg, se una ragazza muore per un black out in sala operatoria o se gli immigrati di Rosarno si ribellano alla protervia dell'inciviltà.

Aveva ragione Mimmo Gangemi, abbiamo il "diritto di non essere eroi" e, aggiungiamo, di non diventare martiri. Perché noi vogliamo solo lavorare, lavorare bene, e in pace, animati da quell'impegno morale e civile che ci spinge solo a compiere quotidianamente il nostro dovere. Ha ragione il nostro sindacato, qui non viviamo nel terrore; d'altro canto però, non possiamo negare che spesso la preoccupazione ci assale. Perché il clima che ci avvinghia si ripercuote sulle nostre famiglie, prima che sulle nostre redazioni. E perché, in Calabria, al giornalista non è riconosciuto il ruolo che gli appartiene.

Facciamo cronaca spesso costretti a mendicare atti dagli stessi avvocati dei mafiosi di cui scriveremo il giorno dopo. Magari proprio di quei mafiosi che si siedono al nostro fianco durante un'udienza, o che ci fissano in cagnesco dalle sbarre mentre sotto i loro occhi prendiamo appunti. Stiamo da questa parte del nastro bianco e rosso, assieme ai familiari dell'ennesimo morto ammazzato di una faida che non fa rumore oltre il Pollino e lo Stretto. Per gran parte dei nostri politici siamo solo degli spioni che non si fanno mai gli affari loro, mentre magistrati e poliziotti sono costretti a guardarsi con circospezione ogni qualvolta ci avviciniamo anche solo per chiedere notizia su un'udienza preliminare o su un arresto.
Diamo il massimo, ogni santo giorno, per offrire un servizio al lettore, per informarlo, per alimentare la sua conoscenza su fatti di straordinario rilievo pubblico dei quali finalmente si scrive e che continueremo a scrivere , nonostante tutto. Non vogliamo essere né eroi, né martiri, vogliamo solo fare il nostro lavoro, il nostro dovere. Sperando di non doverci rassegnare alla solitudine.

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