01 agosto 2010

Liberiamo l’Italia dal cancro berlusconiano

di Paolo D'Orsi - Micromega.it

In un celebre passaggio del Manifesto, Marx inventa la formula del “comitato d’affari della borghesia”, per indicare i governi nelle società capitalistiche: un concetto analogo troveremo quattro anni più tardi in un altro testo del fondatore del “comunismo scientifico”, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte.

A quanti di noi, specialmente da quando il cavalier Silvio Berlusconi è “sceso in campo”, nell’ormai pleistocenico 1994, sono venuti alla mente quei riferimenti marxiani? Io stesso credo di averlo fatto su queste pagine on line. Ma ora mi rendo conto – e faccio autocritica – che quella definizione (efficacissima, come sovente ne capita di trovare navigando nel vasto oceano di Marx, che era tra l’altro grande scrittore, dotato di piglio satirico assai notevole) è fuorviante. Anzi, ora dico: magari il governo – quello che ci sgoverna – fosse il comitato d’affari della borghesia italiana! Per quanto “melmosa” (e qui uso un aggettivo gramsciano) sia la strada dei borghesi nostrani – e ne abbiamo prova ogni giorno –, se per borghesi intendiamo in senso proprio i detentori dei mezzi di produzione, per quanto risibili siano i loro argomenti, agghiaccianti le loro politiche (si vedano le ultime performances dell’uomo del maglioncino, l’ineffabile Marchionne, solo pochi anni diventato intoccabile e miracoloso come Padre Pio), scellerate le loro scelte strategiche, che hanno devastato o distrutto settori di punta, come il chimico, il tessile e più recentemente l’elettronica; ebbene, lo spettacolo della compagine governativa, e della vasta coorte di miserabili che si interfaccia con essa, è qualcosa di assai diverso.

Non è neppure sufficiente evocare la “borghesia stracciona”, che ancora da Gramsci in poi tanti analisti critici della società italiana hanno storicamente posto sotto la luce del riflettore. Inadeguato parlare di “casta”, o usare il peggiorativo “cricca”. E il lessico inventato alla scoperta di Tangentopoli appare come un film in bianco e nero, l’immagine sbiadita di un documentario della “Settimana Incom” dove si vedono signori ancora molto “ingessati”, con abiti d’ordinanza, sottotono, che entrano ed escono dal Palazzo di Giustizia di Milano. Non è casuale che, come l’emergere dell’astro berlusconiano sia avvenuto sotto l’ombrello protettivo di una loggia segreta (massoneria deviata, dicono…), così il suo tramonto si collochi nel plesso di un’altra loggia, o forse loggetta, che raduna il “meglio” degli amici, e degli amici degli amici, del nuovo Principe. Li abbiamo visti, quei personaggi: in fotografia, in televisione, sulla rete: si assomigliano (quasi) tutti. Sembrano appena usciti da una seduta di fisiomassoterapia (c’è sempre una signorina Francesca – vero, dottor Bertolaso? – pronta a esercitare le sue magiche competenze sugli stanchi corpi di quegli ultrasessantenni, o ultrasettantenni, che ambiscono a trovare l’elisir non solo di lunga vita, ma di eterna giovinezza); sono tutti opportunamente trattati con lampade solari e prodotti da beauty farm, dove peraltro si recano periodicamente per rassodare ciò che è da rassodare, rilassare ciò che è da rilassare; sono levigati o meglio botulinizzati; sono pettinati e forse brillantinizzati, sia che abbiano chiome alla Verdini o teste di bitume modello Arcore; ostentano, insieme con i loro abiti griffati, la sicurezza degli impuniti che sanno di non poter incorrere nei rigori della legge. Vedi il ministro a otto pollici Brancher, il cui caso rappresenta uno dei punti più infimi dell’intera storia repubblicana; il che, in un Paese che ne ha viste davvero di cotte e di crude, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, fino al Pio Albergo Trivulzio di Milano, vuol dire davvero molto. Più di molto.

Insomma, stiamo assistendo da troppo tempo nel silenzio – ora dell’insipienza, più spesso dell’ignavia, di rado dell’innocenza – a un precipizio nell’osceno: un insieme di persone, governanti e loro clientes, badanti, massaggiatrici, fotomodelle, escort, aspiranti ministre, aspiranti veline (che poi è lo stesso), faccendieri, intrallazzoni, voltagabbana di ogni sorte, pseudofinanzieri, pseudoimprenditori, pseudogiornalisti, tutti in busca di premi, ingaggi, concessioni, ville con piscina, BMW con autista, superattici da ristrutturare a spese di qualcuno o semplicemente da ricevere in grazioso, quanto ignoto, dono da qualcun altro. Le intercettazioni – le provvidenziali intercettazioni telefoniche, e perciò da bandirsi, nel disegno del Neoduce – degli ultimi giorni ci hanno rivelato un panorama che neppure il più acrimonioso, prevenuto, ideologo della sinistra che più estrema non si può, sarebbe riuscito a immaginare. Un grumo esteso, che si è dilatato come un blob inarrestabile un po’ dappertutto; parlamentari, industriali, magistrati, giornalisti, banchieri, e gli immancabili saprofiti dell’intermediazione: “conosco una persona”, “ci parlo io, a quelli là…”, “vi metto in contatto”, “so io come fare per raggiungerlo…”, “sì, ma io che ci guadagno”?”. E via seguitando, in una sequenza che incomincia con un valzer triste, alla Sibelius, e finisce in un grottesco pastiche, alla Stravinskij.

Il berlusconismo, fase suprema del turbocapitalismo nella versione meneghina e insieme burina, ha vinto. E ora che lui, il Neoduce, sta per andarsene, la sua creatura ha ormai infettato il corpo del Paese, come una invasione di ultracorpi: non lo sappiamo, spesso tardiamo a riconoscerli, ma i berluscones sono tra noi. Parlano come noi, sì, a volte proprio come noi: e magari criticano il ducismo, l’illegalismo, l’immoralismo dell’uomo di Arcore; ma sono diventati troppo sovente portatori sani di quel virus. Bulimia di potere, insofferenza alle regole, concezione “sostanzialistica” del diritto (per cui ci metti dentro ciò che ti fa comodo, e ne togli ciò che può essere d’ostacolo ai tuoi interessi personali, di famiglia, di branco, di partito…), voglia di apparire, doppio registro di comportamento, inflessibili e rigorosi nelle dichiarazioni pubbliche (magistrato, docente universitario, manager, pubblico amministratore, politico di professione…), ma mafiosi e camorristi nelle pratiche concretamente inerenti allo stesso esercizio delle loro cariche, spesso usate soprattutto come gradini di una carriera che tende inesorabilmente (come dichiarò con cinica lucidità uno dei personaggi implicati, sia pure nell’infima del piccolo arrampicatore sociale, l’agente fotografico Fabrizio Corona), a tre obiettivi: 1. Il potere. 2. Il successo. 3. Le donne. Che, precisò, peraltro vanno dove c’è successo e potere. E, essenzialmente, dove si coglie l’odore dei soldi (concezione evidentemente poco sensibile alle istanze femministe, quella di Corona…).

Con i soldi Berlusconi ha creato “dal nulla” (?) un partito, appoggiandosi alla rete dei suoi venditori di Publitalia; poi ne ha messo su un altro, con il mitico discorso del predellino, che come ogni atto e detto del Cavaliere egli è arciconvinto passi alla storia; e ora si trova a perderne un pezzo: il messaggio in replica alle dichiarazioni feroci di Fini, con cui si sanciva il divorzio politico, è stato da Berlusconi inviato ai “promotori” del “Partito delle Libertà”: promotori, lo stesso termine, in quanto identico il concetto, di chi deve vendere un prodotto, che siano cofanetti di bellezza, o polizze assicurative, o spazi pubblicitari. Questi sono addetti a vendere libertà: un tanto al chilo, ma la libertà secondo il Cavaliere. Una libertà che persino a un ex fascista come Gianfranco Fini è apparsa, come dire?, un tantino estranea alla democrazia e alla stessa cultura liberale. Una libertà di tipo aziendalistico, dove il proprietario detta gli “obiettivi” all’amministratore delegato, e alla schiera dei dipendenti: e chi non raggiunge tali obiettivi, guai a lui. Licenziato.

Ma noi, noi tutti, quando troveremo la forza di licenziare lui? Sì, dico proprio lui, l’uomo che più di chiunque altri nel Dopoguerra, ha contribuito a devastare non soltanto l’economia, il territorio, l’ambiente, la cultura; ma la coscienza civile di questa Italia, che oggi è assai oltre la crisi di nervi. Possibile che in una situazione di crisi sociale e morale e politica come quella che stiamo vivendo non siamo in grado di dar vita a un movimento alternativo a questo panorama disgustoso? Ci accontenteremo delle congiure di palazzo per cacciare il nuovo Nerone? Contro questo mostruoso polipo che uno dopo l’altro va impadronendosi dei gangli vitali della società italiana, e sta cercando di impossessarsi anche dei nostri cervelli, non vogliamo tentare di suscitare, aggregare, e lanciare una resistenza organizzata, sistematica, capillarmente diffusa? Contro il “Partito della devastazione”, non vogliamo provare a dar vita a un “Partito della Salvezza”?

Salviamo l’Italia. Liberiamoci di costui, della sua banda di corrotti e corruttori: salvare l’Italia, motto di Carlo Rosselli contro il duce, oggi dovrebbe forse essere la parola d’ordine per chiudere per sempre una pagina terribile della storia nazionale. Salvare l’Italia, prima che la riducano in brandelli, che, opportunamente commercializzati, saranno rivenduti da un esercito di “promotori”. Salvare la Costituzione, salvare la libertà di informazione, salvare l’indipendenza della magistratura, salvare i diritti dei lavoratori, salvare la scuola e la sanità pubblica, salvare l’acqua e i servizi essenziali dall’assalto dei privati: questi i primi obiettivi da perseguire, contro la marea fangosa di un governo non più circondato da nani e ballerine, ma immerso nello sterco del diavolo, il denaro, principio e misura di ogni valore, per citare ancora Marx.

Salviamo l’Italia, contro i falsi profeti della “modernizzazione”. Formiamo “testuggine a resistere” (come disse Gaetano Salvemini, contro il fascismo), e passiamo al contrattacco, in una guerriglia culturale che usi ogni canale, ogni situazione, ogni occasione. E facciamo dell’autunno la stagione non solo del ripensamento, pur sempre necessario, ma di lotta. Diamo vita a una nuova “adunata dei refrattari”, e facciamo vedere, in concreto, che un’altra Italia esiste.

Angelo d'Orsi

P.s. A proposito di cancro. Che il premier Silvio Berlusconi fosse interessato alla lotta ai tumori lo si poteva dedurre da quando dichiarò, alcuni mesi fa, che il cancro sarebbe stato sconfitto in pochi anni. L'obiettivo però ha anche un risvolto pratico, secondo quanto riporta l'agenzia Bloomberg: il premier è diventato azionista di maggioranza dell'azienda MolMed, che ha allo studio due farmaci innovativi proprio in quest'area della medicina. Il leader del Pdl sarebbe salito lo scorso dicembre al 24% dell'azienda biomedica con sede a Milano, diventandone così il primo azionista.

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