30 novembre 2009

Caro papà, perché non te ne vai tu? La risposta di un precario a Celli (attos secondo)



dal blog Giornalettismo.com

Caro raccomandato politico, perché se ha diretto la Rai deve per forza essere stato affiliato, o quantomeno simpatico a qualche partito, nonché attuale direttore della Luiss, che per chi non la conoscesse è la più esclusiva università privata di Roma a cui accedono soltanto i figli di persone facoltose, vista la retta che viene chiesta per l’iscrizione, le scrivo per chiederle se non le sembra stucchevole, ipocrita e in un certo senso crudele propinarci una lettera a suo figlio in cui gli consiglia di cambiare nazione perché la nostra è marcita e dentro non ci troverà opportunità per esprimere il suo valore. Vede, dottor Pierluigi Celli, non solo non riesco a provare la minima empatia per quello che dovrebbe essere un supposto dramma, ma non riesco a vederla nemmeno come vittima e con lei non vedo come vittima suo figlio, sicuramente persona degna di lode che non mi permetto di giudicare, non conoscendolo. Il problema è che, con rispetto parlando, lei e quelli come lei siete la metastasi, il tumore che andrebbe rimosso per ricreare quella speranza ormai patrimonio dei dormienti. Lei vede un’Italia diversa da quella che aveva sognato, ma quanto ha fatto per cercare di renderla somigliante al sogno? Quante volte ha rifiutato il compromesso pur di non tradirla? Oppure, vista la posizione che ricopre, è soltanto uno di quelli che, arrivati a un’età veneranda avendo succhiato il succhiabile, ora sente la necessità di sentirsi un ribelle a un sistema di cui è uno dei mattoni? Perché invece di scrivere una lettera del genere non abbandona il suo posto? Perché ha accettato in passato tutti i compromessi del caso per raggiungerlo? In quanta di quella malattia che oggi denuncia si è imbattuto nel suo percorso professionale o, più semplicemente, di vita? Quante volte ha cercato di essere medicina e ha rifiutato di mettersi dalla parte del virus? Mi dica per favore, sono sinceramente curioso di saperlo. Come sono curioso di sapere perché, compreso il dramma, non fa qualcosa per trasformarsi in simbolo del cambiamento.

In effetti ammetto che potrei sbagliarmi. Non conoscendola direttamente, ammetto anche che lei potrebbe essere la persona migliore del mondo. Magari sono soltanto io il problema e mi sto lasciando trascinare dal rancore. È che vedere le ingiustizie che quotidianamente devo mandare giù e che devono mandar giù persone che mi sono vicine, denunciate da chi sembra tutt’altro che innocente nell’averle fatte diventare sistema, anche solo avendolo accettato in quanto tale, fa male. Come fa male vedere un quotidiano come La Repubblica che le dà voce, quella voce negata a tanti altri nessuno che non possono permettersi di consigliare ai figli di emigrare perché non avrebbero mezzi per aiutarli. Quella voce negata alla vita di tante persone ridotte a un silenzio che sta creando una massa d’odio profondo e non mediato. Sa da quanti anni va avanti quello che lei chiama “schifo”? Conosco grandi persone diventate nulla e delle nullità assurte alla gloria spinte dal cognome. Ma sto diventando banale… e sa perché sto diventando banale? Perché sono anni che sento questi discorsi e sono anni che di tanto in tanto trovo denunce come la sua fatta da gente come lei sulla pelle di persone come me. Ormai la denuncia dello schifo fa parte della retorica dello schifo stesso e non riesco più ad accettarla in quanto tale, perché non produce alcun cambiamento. È un lamentarsi fine a se stesso. O forse è un modo per far notare a chi di dovere che suo figlio è sul mercato e ha bisogno di un lavoro che non sia in un call center a 600€ al mese per otto ore al giorno di lavoro?

Immagino che se suo figlio ottenesse una raccomandazione per qualche posto di prestigio, lei gli consiglierebbe di non accettarla. Immagino anche che farebbe nulla per favorirlo o per fargli ottenere un ruolo di rilievo in questa società che gli consiglia di lasciare, come nulla fanno tanti padri come lei che denunciano per poi farci trovare i loro ‘cari’ in mezzo ai piedi, lasciando agli altri solo le briciole. È piuttosto recente una campagna elettorale in cui si è parlato spesso di meritocrazia e non credo di doverle illustrare com’è andata a finire. Sinceramente non le voglio chiedere lo sforzo eccessivo di tornare sui propri passi e nemmeno voglio chiederle di aspirare al martirio per fare contenti i morti di fame come me. Le chiedo soltanto il silenzio e il rispetto dovuto ai molti a cui la vita non dà accesso a Repubblica per i propri sfoghi familiari.

In fede

Un blogger precario

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