30 aprile 2010

Fenomenologia di Dagospia



di Alessandra Menziani

La cosa più succulenta di Dagospia, notizie a parte, sono i soprannomi che Roberto D'Agostino ha rifilato ai personaggi che popolano il jet set italiano. Perle di sublime irriverenza, nomignoli satirici che sono entrati nel gergo degli addetti ai lavori. Se uno legge Dagospia per la prima volta, non capisce nulla perché il titolare ha inventato uno slang tutto suo. Dago storpia in nomi e li carica di significati allusivi. Fa ridere, sì, ma soprattutto coglie l'essenza del soggetto. E i titolari protagonisti della tv, della politica, della finanza non ci possono proprio fare niente, incassano a denti stretti. Qualcuno si irrita, altri la vedono come una consacrazione. Al massimo si fanno qualche risata. Nelle redazioni dei giornali Daniela Santanché è ormai diventata Daniela Santadeché dopo che Dagospia l'ha ribattezzata così.Ma lei non si scompone visto che l'amica-nemica Alessandra Mussolini si difende: lei è infatti "La Duciona". Molto più crudele il soprannome dell'ormai ex vice capogruppo alla Camera Italo Bocchino. "Becchino", lo chiama il principe del gossip. Becchino di nome e di fatto visto che lui si è in qualche modo auto-seppellito con le sue dichiarazioni anti-Cav all'"Ultima parola". A proposito di Bocchino, Gianfranco Fini prima veniva chiamato "Gianmenefrego" e oggi, dopo lo scontro con il premier, si è guadagnato l'appellativo di "Gian-mipento".

Berlusconi dopo lo pseudo-scandalo del compleanno di Noemi Letizia, era per tutti semplicemente "Papi" (così lo chiamava la diciottenne di Casoria), ma dopo un anno la sua definizione più frequente su Dagospia è "Cainano", dall'unione del titolo del film di Nanni Moretti (il Caimano) e la non slanciatissima statura del presidente del Consiglio.

Ironicamente, Pierferdinando Casini è chiamato "Pierfurby". D'altra parte, come diceva Cossiga, «Casini è bello, molto bello». La deformazione linguistica, il calembour e l'allitterazione sono tra le figure retoriche ricorrenti. Per il suo soporifero appeal televisivo, il conduttore di "Matrix" Alessio Vinci si è guadagnato lo spiritoso appellativo di "Cat-Alessio". Discorso inverso per Maria De Filippi.

La conduttrice di "Amici" non fa che mietere "vittime" tra i colleghi della Rai che hanno la sventura di fare concorrenza ai sui programmi ed è diventata così "Maria La Sanguinaria" come la sorella di Elisabetta d'Inghilterra nota per il suo atteggiamento non tenerissimo contro i protestanti. Simona Ventura è "La mona" (che in Veneto è una parolaccia) mentre i suoi naufraghi sono i "morti di fama".

I segni sul viso di Bruno Vespa l'hanno fatto ribattezzare scherzosamente "Bru-neo", mentre nessuna forza al mondo poteva evitare che D'Agostino chiamasse la conduttrice di "Otto e mezzo" Lilli Gruber Lilli "Botox" per l'aspetto sospettosamente levigato del suo viso. Monica Setta, per il suo generoso davanzale, è invece Monica Tetta.

I giornalisti sono una categoria presa notevolmente di mira dal titolare del sito di gossip. L'aria british e il colorito smorto del direttore del "Corriere della sera" Ferruccio De Bortoli ha facilmente indotto Dago a chiamarlo "Flebuccio" e da quando Vittorio Feltri è passato alla guida del "Giornale", la nascita del soprannome "Feltrusconi" è stata immediata.

Alfonso Signorini, caro amico di Dago, è invece "Alfonsina La Pazza", Rossella è Carlito. In dieci anni la carrellata di nomi è nomignoli è diventata lunghissima. Luchino di Monteparioli e Scarpe diem, da Kit Cat, alias il direttore della Rai Flavio Cattaneo, a Sergio Marpionne (Marchionne) fino allo strepitoso (Vittorio) Colao meravigliao.

E, ancora, WalterEgo Veltroni, Aledanno (Alemanno), Emilio Fedele, Gero-Vital (Geronzi). Quasi nessuno si è arrabbiato per un soprannome. L'unico, forse, è stato Fausto Bertinotti. «Un po' si è infastidito per "Berty-Nights"», ci spiega D'Agostino, «un termine che ha contribuito al grande crollo, in fondo la voglia di mondanità della Sora Lella (Lella Bertinotti, ndr) è stata fatale».

«La Santadeché invece si è divertita, ma non è che abbia tanti rapporti con i personaggi, non ho inviti di qua e di là». Berlusconi l'ha chiamato in mille modi diversi. Ma il primo è stato "Quarzo potere", «perché era bello e lucido ». Il soprannome di cui va più fiero, quello entrato negli annali, è senza dubbio "Mortadella" affibbiato a Romano Prodi, «anche se la frase intera era "Una Mortadella dal volto umano"». Intramontabile.

Io ho paura

29 aprile 2010

Camorra: l'ultimo affare milionario. 1500 forni abusivi di pane. Cotto con la legna delle bare.




Napoli. Non gli importa se i gatti si avventano sulla pizza che ha appena sfornato o se i topi mangiano la farina dai sacchi lasciati aperti per terra, tra fango e spazzatura. Non gli importa se il tavolo dove mette il pane a lievitare è ricoperto di escrementi di piccione o se il vento fa cadere nell’impasto le ragnatele che penzolano dal soffitto. E non gli importa neppure se nel forno dove cuoce deve smaltire le bare mezze marce delle esumazioni dei cimiteri di Napoli e Caserta, o bruciare materiali tossici, scarti di industrie chimiche e copertoni d’auto. A Salvatore, panificatore improvvisato, tutto questo non interessa. Lui continua a lavorare e a sfornare panini, pizze e sfilatini per tutta la notte e la prima mattinata. Dal lunedì alla domenica. La sua unica preoccupazione è quella di riuscire a caricare i furgoncini che passano a ritirare il pane. Poi tutto il resto è normale.

Nell’industria del pane abusivo della provincia di Napoli – un giro d’affari di oltre cinquecento milioni di euro l’anno – non c’è niente di strano, niente che non si possa fare. Tutto è lecito, purché a fine giornata ciascun forno abusivo abbia prodotto dai duemila ai quattromila pezzi di pane. Nel Napoletano sono circa millecinquecento i panifici segnalati dai cittadini ai carabinieri, al numero verde istituito dalla Provincia e alla associazione regionale panificatori, la Unipan. Ma, secondo una stima dell’assessorato provinciale dell’agricoltura, ce ne sarebbero altrettanti sparsi tra le campagne e i vicoli di Nola, Caivano, Cardito e Giuliano.

Per produrre pane abusivo, a Napoli e dintorni, basta avere una baracca o un garage, la voglia di faticà e il permesso del clan della zona. È il clan che ti rilascia l’autorizzazione, ti procura la farina e, con quella, i materiali da bruciare nei forni. È il clan che ti indica a quali negozi e supermercati puoi e devi vendere il pane, ti affianca la manodopera clandestina e persino l’avvocato se qualcosa dovesse andare storto e i carabinieri dovessero mettere i sigilli al forno. Proprio come è successo a Salvatore, difeso dalla cognata del boss della zona.

Afragola, terra del clan Moccia, è il regno della panificazione abusiva: in poche settimane, sono stati scoperti centodieci forni. In una sola strada, via Calvanese, i carabinieri ne hanno trovati nove. “Il pane per la criminalità è diventato una fonte di guadagno di milioni di euro l’anno” spiega il colonnello Gaetano Maruccia, comandante provinciale dei carabinieri di Napoli: “Permette di riciclare denaro, controllare e stabilire il costo della farina su tutto il territorio campano e, di conseguenza, anche il prezzo di vendita del pane e persino la quantità che deve essere prodotta”. A gestire l’intera filiera del mercato parallelo della panificazione, assieme al clan Moccia, sono anche le famiglie Polverino di Maraso e Russo di Nola. Ed è proprio con gli scarti delle nocelle, le nocciole, che arrivano dalle campagne di Nola, che la camorra avvelena il pane. Ogni giorno, i clan dirottano nei forni abusivi tonnellate di gusci di nocciole trattate con antiparassitari, scarti dell’industria alimentare, che per legge dovrebbero essere smaltiti come rifiuti speciali perché tossici.

Non solo. Con i gusci, la camorra, brucia nei forni anche porte laccate, tavoli, scheletri di divani e poltrone. A Pozzuoli, alcuni conducenti della ditta che ha in appalto la raccolta differenziata, scaricano interi salotti, cucine e vecchi infissi in legno davanti ai forni abusivi.

La camorra arriva dove si ferma l’immaginazione: “È in mano ai clan anche la gestione dei servizi cimiteriali dei territori di Napoli e Caserta” denuncia Tommaso Pellegrino, ex segretario della Commissione bicamerale antimafia, “ed è sempre la camorra che si occupa delle cremazioni delle esumazioni e dello smaltimento delle bare”. Smaltimento rapido e a costo zero. Il Nas, il Nucleo antisofisticazioni e sanità dei carabinieri, durante blitz notturni all’interno dei forni abusivi ha trovato decine di bare tagliate, pronte per esser utilizzate per la cottura del pane. Ma come per tutti i legnami trattati compresi i gusci di nocciola le porte, le sostanze tossiche delle tinture e delle coppali presenti sulle bare, con il calore si sciolgono e si trasformano in resine che si depositano sulle pareti del forno. Poi, con le altissime temperature di cottura, questa resina velenosa e cancerogena si scioglie nuovamente e viene assorbita da pane, pizza e dolci.

Dall’inizio dell’anno ad oggi poco meno di ottocento i forni abusivi chiusi, cinquecento dei quali sono stati definitivamente smantellati. Trecento, però, sono stati riaperti dalle amministrazioni comunali. “La lotta al fenomeno della panificazione illegale combattuta dai carabinieri, dal Nas, dalle associazione di categoria, è frenata dalle amministrazioni corrotte o minacciate dalle famiglie camorriste” precisa Tommaso Pellegrino. “Molti comuni non controllano il territorio e autorizzano la riapertura di strutture non a norma”. Aggiunge Francesco Borrelli, assessore all’Agricoltura della Provincia di Napoli, da anni impegnato al fianco dei carabinieri e dell’Unipan nella lotta alla panificazione abusiva: “Sono scarsi anche i controlli da parte delle Asl, dalle quali ci aspetteremmo, invece, molte più ispezioni e sopralluoghi all’interno dei panifici abusivi. In realtà andrebbero ispezionati anche quelli autorizzati, che spesso non rispettano nessuna norma igienico-sanitaria, a partire da quella sulla conservazione della farina”.

La farina: è l’altro grande business della camorra. Quella dei forni abusivi arriva dalla Toscana, dall’Umbria, dalla Lombardia e dal Friuli Venezia Giulia. Dai molini della provincia di Pisa e Siena, da Perugina, Brescia e Pordenone, i clan acquistano assieme alla farina di prima qualità anche gli scarti o quelle farine che dovrebbero essere smaltite. Le fanno arrivare nei depositi regolare della zona e, da qui, ai panificatori abusivi. Ma quando la farina arriva nei forni è già in parte deteriorata. I sacchi da cinquanta chilogrammi vengono accatastati in stalle o in garage esposti alla pioggia, al vento e ai topi. Solo pochi giorni fa, i carabinieri ne hanno sequestrato uno ad Afragola, ma il suo proprietario ha trasferito il suo deposito su un vecchio camion e a continuato la distribuzione.
Tra le farine sequestrate e utilizzate nell’impasto per il pane mescolate a quelle italiane, anche prodotti importati dall’Est Europa: di questi, non è stata accertata la genuinità. Ma è il meno.

di Nadia Francalacci

27 aprile 2010

Tegano, la realtà dura e cruda e le rappresentazioni mediatiche



La scena è di quelle già viste, poco edificanti per la gente perbene nei territori di mafia. Era successo a Napoli con l'arresto del superboss Cosimo Di Lauro. Una folla di persone inveiva contro i poliziotti e i magistrati. All'arresto del latitante Giovanni Tegano, latitante dal 1993, in Calabria, si è assistito a una levata di scudi simile di fronte alla Questura di Reggio da parte di centinaia di persone, in parte familiari del mammasantissima, in parte semplici curiosi.
Il questore della città dello Stretto Carmelo Casabona ha giustamente biasimato questa reazione: "E' una vergogna, dovrebbero applaudire la polizia, invece che il boss". "Avete arrestato un uomo di pace", si è sentito distintamente tra quella turba indistinta di persone. Senza avventurarsi in considerazioni sociologiche sul perché questo avvenga, l'episodio dimostra come la città sia ancora in preda alla pervasività della subcultura mafiosa che non fa sì che la gente comune tifi apertamente per lo Stato, che non si senta comunità, come ha fatto notare in più di una circostanza il magistrato Salvatore Boemi. Per fortuna associazioni e partiti faranno apparire meno stonata e/o afona la triste nota proveniente dal centralissimo Corso Garibaldi con manifestazioni di sostegno ai poliziotti, alle forze dell'ordine che combattono il crimine quotidianamente e mettono a repentaglio la loro integrità per poco più di mille euro al mese. "Reggio non tace", si legge in una nota, non si riconosce in quegli applausi e scende in piazza a manifestare la propria ammirazione alle forze dell'ordine non certo ai criminali! è un occasione per gridare la nostra voglia di rinascita!!!". Spiace constatare che a Palermo i ragazzi di Addiopizzo vomitano insulti di ogni tipo ai mafiosi arrestati (Provenzano, Lo Piccolo ecc), a Reggio li si applaude. L'Antimafia sociale si costruisce nel tempo del resto. Una domanda però nasce spontanea.

Qual è la qualità dello Stato in Calabria? Di che tipo è il tessuto politico della società calabrese? A vari livelli lo Stato scende a patti nelle contese elettorali con i boss (come dimostrato dalla Commissione Parlamentare Antimafia), per identificarsi come referente solido. C'è anche lo Stato che non riesce a presidiare il territorio dalle infiltrazioni, c'è una presenza oppressiva di un sistema massonico consolidato. Perciò, il discorso va ampliato e scisso dall'emotività mediatica. Si tratta di categorie weberiane e di entità astraibili dalla pratica quotidiana. Spesso la sensazione è che anche la magistratura aggredisca grazie all'uso dei pentiti (non si è mai visto un collaboratore di giustizia diventare gola profonda, se non quando cade in disgrazia), l'ala militare, una cosca spesso perdente, fermandosi soltanto al livello primordiale, seppur pregnante, alla crosta dell'organizzazione mafiosa, senza aggredire il nocciolo duro e i fiancheggiatori occulti. C'è una borghesia imprenditrice, costituita da faccendieri, da colletti sporchi, che muovono i capitali e scendono a patti con le istituzioni. E' la mafia imprenditrice che come scrive il giornalista e blogger Nino Monteleone: "E’ iscritta ai Rotary Club. Frequenta circoli esclusivi. Appartiene alle logge massoniche. Finiti i latitanti da catturare il vero coraggio di Istituzioni (magistratura, forze dell’ordine, governo) si misurerà con questo confronto".

22 aprile 2010

Saviano? Deve restare con Mondadori. E combattere


Wu Ming

Ricapitoliamo: Berlusconi attacca Gomorra . Lo aveva già fatto, ma stavolta è più esplicito. Saviano giustamente fa notare che Berlusconi è proprietario della casa editrice che pubblica il libro, e chiama in causa quest’ultima: «Si esprimano i dirigenti, i direttori, i capi-collana». Si esprime invece Marina Berlusconi, più in veste di figlia che di editrice. Saviano commenta la lettera di Marina senza abbozzare, senza toni concilianti, anzi, chiamando in causa la Mondadori con maggiore perentorietà. Il messaggio è: «Voglio sentire chi in casa editrice ci sta per davvero, voglio sentire chi la Mondadori la manda avanti».

La contraddizione si acuisce. Da autore Mondadori e autore di Gomorra , Saviano occupa una postazione strategica, e più di altri può chiamare al pettine certi nodi, nodi che riguardano anche noi. Far venire i nodi al pettine è tanto un dovere civico e politico, quanto un compito specifico dello scrittore. Pubblicando con Mondadori, Saviano ha generato conflitto. Conflitto non effimero, ma che opera in profondità. Comunque vada, è più di quanto abbia fatto l’opposizione. Se Saviano fosse rimasto in una nicchia di ugual-pensanti, nel ghetto dei presunti «buoni», non avrebbe acuito nessuna contraddizione, né generato alcun conflitto. Stare simultaneamente «dentro» e «contro», diceva l’operaismo degli anni Sessanta. «Dentro e contro» era la posizione, era dove piazzare il detonatore. Sia chiaro: l’alternativa non è mai stata «fuori e contro».

L’alternativa è sempre stata «dentro senza rompere i coglioni», oppure «dentro senza assumersene la responsabilità». Dentro fingendo di star fuori, insomma. Come tanti, come troppi. Un «fuori dal sistema» non esiste. Il sistema è il capitalismo, ed è ovunque, nel micro e nel macro, nei rapporti sociali e nelle coscienze, nelle giungle e in cima all’Everest. Noi abbiamo sempre detto – e ancora diciamo – che tutti quelli che combattono «il sistema» lo fanno dall’interno, dato che l’esterno non c’è. Il potere non è fuori da noi, è un reticolo di relazioni che ci avvolge, un processo a cui prendiamo parte. Ma ovunque vi sia un rapporto di potere, là è anche possibile una resistenza. Sei anni fa WM1 spiegò, per l’ennesima volta, la nostra posizione sul «pubblicare con Einaudi».

Lo fece per filo e per segno su Carmilla. Tra le altre cose WM1 scriveva: «Negli ultimi anni, le polemiche “boicottomaniache” hanno rischiato di fare il gioco degli yes men, dei leccaculo: chi chiede agli autori di sinistra di “andarsene da Mondadori” non capisce che così facendo il loro posto nella casa editrice e nell’immaginario collettivo (una posizione a dir poco strategica) sarebbe preso da autori e manager di destra (i quali non vedono l’ora), con piena libertà di spargere la loro merda incontrastati». Queste frasi risalgono a due anni prima dell’uscita di Gomorra . Sono cose che, in seguito, lo stesso Saviano ha dichiarato in più occasioni, e diversi altri autori hanno ribadito, anche di recente. Da anni difendiamo questa postazione avanzata e scomodissima, esposti sia agli attacchi della destra sia a continue raffiche di «fuoco amico». Oggi tutto è più difficile, ma per noi la sfida, la sfida politica, è ancora «resistere un minuto più del padrone».

L’Einaudi è un campo di battaglia importante, e finché avremo munizioni e fiato continueremo a combatterci sopra. Ce ne andremo solo se e quando, presto o tardi, le condizioni si faranno intollerabili. È la strategia sbagliata? Tutto può essere. Ma è quella che abbiamo scelto e di cui rendiamo conto da sempre. Al di là di alcune mosse e prese di posizione stridenti e da noi non condivise, abbiamo sempre difeso e continueremo a difendere Saviano dagli attacchi stupidi o interessati. Dev’essere ben chiaro che Saviano non può comportarsi in altra maniera: ha davvero bisogno di questa ossessionante presenza pubblica, di questo over–statement di solidarietà anche pelosa, perché gli garantisce incolumità. Il paradosso è che, dietro il cordone sanitario, lo scrittore svanisce e resta solo il testimonial. Saviano dovrà lottare con le unghie e con i denti per ri–conquistarsi come scrittore.

Dal 2006, per continuare a vivere, Saviano ha dovuto agire perché non calasse l’attenzione: gli è toccato essere sempre visibile, essere una presenza costante nella sfera pubblica. In ogni momento, il forte rischio era che questo sovra-apparire lo inflazionasse, gli facesse perdere potenza. Di fronte a un calo di potenza, la tentazione è di rispondere «aumentando la dose», per ottenere un effetto in un’opinione pubblica sempre più assuefatta e «tollerante». Solo che, aumentando la dose, il problema si ripropone a un livello più alto e quindi più impegnativo, meno gestibile. Questo è il dilemma, e Saviano ne è sempre stato conscio: non è un caso che abbia spesso tentato di scartare, che sia sempre tornato a insistere sulla «scrittura», sullo scrittore. Era il suo modo di fare resistenza, di non far chiudere il dispositivo, di non farsi legare definitivamente. Bene, può darsi che Saviano abbia trovato lo spiraglio.

Può darsi che l’acuirsi della contraddizione-Mondadori gli stia fornendo un inedito spazio di espressione non pre-ordinata. Forse il dispositivo è entrato in una crisi almeno passeggera, perché sotto i nostri occhi Saviano «è diventato quel che è». Mai come ora, mai in modo tanto eclatante, Saviano è stato quello che vediamo nella risposta a Marina Berlusconi: un uomo libero. Anche nella reclusione che sconta, un uomo libero. Comunque vada a finire con Mondadori, comunque vada a finire in generale, in questo momento Saviano è libero.

21 aprile 2010

Secondo tempo: il trailer

Comunione ad personam

Reggio Libera Reggio: la libertà non ha pizzo



Periferia nord di Reggio Calabria, patria dei De Stefano. Un imprenditore si rifiuta di pagare il pizzo. La sua azienda che produceva materiali d'informatica è stata fatta saltare in aria. Il titolare di una sanitaria 18 anni fa ha denunciato i boss, anche il suo locale è stato distrutto più volte. A sud di Reggio Calabria il proprietario di una pizzeria è riuscito, grazie a telecamere e polizia, a fare arrestare i suoi estorsori. Storie diverse, ciascuna a suo modo, battaglie per la libertà di impresa in un territorio a sovranità limitata. Storie che in Calabria, nonostante le solitudini e le difficoltà di questi anni, sono diventate il patrimonio civile del nascente movimento antiracket "Reggioliberareggio, che verrà presentato oggi a Reggio Calabria alle 17.30, Auditorium San Paolo, alla presenza di Don Luigi Ciotti, presidente di Libera.

Più di un anno di lavoro per mettere insieme storie, denunce, persone, idee. Oltre 50 associazioni coinvolte: 4 associazioni antimafia, tutte le sigle sindacali regionali e nazionali, 20 associazioni, tre movimenti politici di schieramenti diversi, 11 gruppi ecclesiastici, 9 cooperative sociali che operano sul territorio. Una rete che non ha precedenti si è riunita, su iniziativa di Libera e con la collaborazione della Federazione nazionale antiracket, sotto un unico slogan " libertà non ha pizzo" con lo scopo di sostenere imprenditori e commercianti che hanno avuto il coraggio di denunciare i propri taglieggiatori ed incoraggiare la ribellione al giogo mafioso, creando una rete solidale tra chi non paga o smette di pagare il pizzo. "Per la prima volta - commenta Don Luigi Ciotti, presidente di Libera - a Reggio Calabria, tantissime associazioni diverse insieme dicono No al Pizzo ed al sopruso della violenza criminale. Un grande movimento culturale, una campagna per sostenere le vittime del racket che hanno denunciato, accompagnare la denuncia delle vittime, promuovere il consumo critico e responsabile, sensibilizzare e informare sull'antiracket, fare educazione e formazione nelle scuole e nelle università".

"L'iniziativa nasce dall'ascolto degli imprenditori costretti a pagare il pizzo e di quelli che si sono ribellati al racket - racconta Domenico Nasone, referente per Libera a Reggio Calabria e animatore di questo percorso. Abbiamo scelto di ripartire proprio dall'ascolto di tre storie emblematiche di questa resistenza contro le 'ndrine e che hanno portato avanti con coraggio una scelta di libertà". Nelle parole di Nasone, a poche ore dall'inizio di questo percorso, è possibile percepire la stanchezza di un lavoro costato fatica ma soprattutto la gioia di aver messo insieme tutti, ma proprio tutti, in una battaglia che non ammette assenti o distratti.

"Il probelma del racket in città, come in provincia, c'è da molti anni - dichiara Domenico Nasone - . Tutti sapevamo ma nessuno parlava pubblicamente. E in questo lungo periodo di lavoro abbiamo anche scoperto il perchè . Dall'analisi portata avanti, infatti, è emerso che su cento imprese, cinquanta non pagano il pizzo. Una buona parte paga e pochissimi no. Purtroppo quel 50% di attività che non paga il pizzo, abbiamo scoperto in seguito, appartiene, direttamente o tramite prestanome, alla mafia". "Sono cifre che impressionano, se consideriamo che coinvolgono vari protagonisti dell'economia locale, dalla catena di distribuzione al piccolo commerciante, dalle imprese edili ai negozianti". "Questo dato è allarmante - spiega Nasone - perchè indica una grande capacità delle 'ndrine di riciclare i proventi che derivano da traffici di droga e altra natura, direttamente nelle attività commerciali che concorrono a muovere l'economia locale". Non solo.

In pochi sin ora hanno denunciato. "Un altro aspetto che è emerso da lavoro sul territorio - sottolinea Nasone - è che il 50% degli imprenditori vessati dalla richiesta del pizzo, fa gravare sul costo delle merci il prezzo "aggiuntivo" che serve per poter pagare il pizzo. Ovvero: il pizzo lo pagano in realtà i singoli cittadini che con i loro acquisti finiscono per finanziare direttamente le 'ndrine. "I commercianti - commenta Nasone - lo pagano come fosse semplicemente un'altra tassa. Ad essere penalizzata è l'economia locale: strozzata dal capitale mafioso e dal rincaro dei prezzi". Numeri che fanno riflettere sulla pervasività di un fenomeno difficile da rintracciare e denunciare. Nasone racconta infatti che per chi sceglie di uscire allo scoperto il percorso è ancora difficile e lungo. "Dalle testimonianze delle vitime del racket emerge che - dichiara Nasone - la burocrazia, le istituzioni sono ancora lente nell'intervenire nell'applicazione della legge 44 e in altre fasi della denuncia, mentre le mafie sono fin troppo svelte ad agire. Nonostante ciò, denunciare conviene". Lo dimostrano tutte le storie positive che arrivano dalla Sicilia e dalla Campania, terreno di sperimentazione e lavoro della Federazione nazionale antiracket e del consumo critico di Addiopizzo. Un impegno comune fra imprenditori e cittadini ha portato avanti percorsi capaci di capovolgere questo status quo.

Il "laboratorio siciliano" dell'antiracket ha portato con sè una novità importante. Confindustria con il suo presidente Ivanhoe Lo Bello ha reso pubblica la nuova linea lo scorso anno: fuori dall'associazione di categoria chi paga il pizzo. Una posizione sostenuta anche a livello nazionale. Chiediamo a Nasone qual è la situazione invece in Calabria. "In Calabria Confindustria ha sposato un no pubblico al pizzo - risponde Nasone -. Lo ha fatto lanciando una campagna nazionale che è sembrata lontanta dal radicamento culturale sul territorio, elemento fondamentale per costruire un cambiamento tangibile. Alle associazioni di categoria aderenti a "Reggioliberareggio" abbiamo infatti chiesto in questi mesi - come primo atto - di indicarci chi non paga il pizzo fra gli aderenti e stiamo raccogliendo le informazioni in loro possesso".

Veniamo ad oggi. Nel pomeriggio a Reggio Calabria la presentazione di questo percorso, presso Auditorium San Paolo. " Si tratta di una proposta amministrativa, politica e sociale - sottolinea Nasone. Ad ogni attivita' gestita da imprenditori liberi dal racket sarà dato un logo di riconoscimento da attaccare in vetrina quale segno a garanzia della libertà dal pizzo e dalle logiche mafiose. Abbiamo scelto di consegnarlo simbolicamente a cinque attività: i tre imprenditori che con coraggio hanno detto di no al pizzo e sono l'anima di questo percorso. Ad una cooperativa nata per finalità sociali su un bene confiscato e che in questi mesi rischia di chiudere, la Rom1995 e a Stefania Grasso, figlia dell'imprenditore Vincenzo Grasso, ucciso dalle 'ndrine nel 1989 perchè si era rifiutato di pagare il pizzo, che sta lavorando a Locri per mettere in moto un percorso simile a quello di Reggio Calabria".

Da oggi inoltre avrà inizio il lavoro di un osservatorio antiracket, composto da sette membri, che periodicamente, individuando vari parametri e con l'ausilio delle forze dell'ordine, rintraccerà sul territorio i punti vendita che non sono collusi con la mafia e non pagano il pizzo per continuare questo percorso pubblico di denuncia. Un ruolo importante in questo progetto però spetterà anche ai cittadini. A loro il compito di sostenere la rete di negozi "reggioliberareggio" impegnandosi a fare acquisti solo nei punti vendita che esibiscono il bollino antiracket. La sfida del consumo critico lanciata dai ragazzi di Addiopizzo Sicilia sbarca in Calabria dunque e diventa il vero ponte capace di collegare l'antimafia sociale contro il pizzo e le mafie.

19 aprile 2010

Paragogna mediatica


Gianluigi Paragone è l'emblema di certo giornalismo forte coi più deboli e servile coi potenti. In questo stralcio de L'Ultima parola si può vedere la conduzione magistrale, autorevole, assolutamente non faziosa e asettica, degna insomma della migliore tradizione del servizio pubblico, con cui all'interno di un servizio e successivo collegamento da Termini Imerese viene sciorinata un'analisi sulla mafia. A colpi di affermazioni apodittiche e con tanto di acclamzione da parte del pubblico prezzolato e del neo governatore Zaia. Ecco alcune credenze anacronistiche che animano il giornalista chiamato a bilanciare Michele Santoro (in quota Lega Nord) sulla seconda rete. Il giornalismo italiano si nutre di alcuni utili suggerimenti: attaccare in maniera brutale chi può non può difendersi, mentre porre domande più o meno genflesse ai politici di riferimento. Naturalmente non c'è Paragone con le reazioni destate dalle trasmissioni di Sant'oro.

Rissa tra D'Urso e Lupi

16 aprile 2010

RaiDue La Russa-Gino Strada annozero 15 aprile 10

Cristo colto in fallo


Alcuni parrocchiani di una chiesa cattolica vicino a Oklahoma City sono indignati per questo crocifisso che pende sopra l’altare principale: sull’addome di Gesù fanno bella mostra gli attributi, i genitali.

15 aprile 2010

Renata Polverini e il sindaco di Latina Vincenzo Zaccheo: scambi di favori e faida interna alla Pdl

I Litfiba al tempo della Reunion



da Rockol.it

Tanto tuonò che piovve: le voci di reunion dei Litfiba giravano da tempo, c'era chi la sognava, c'erano gli Elii che hanno scritto una canzone al proposito, "Litfiba tornate insieme". Alla fine la reunion è arrivata: dopo l'annuncio dello scorso dicembre, dopo tre date di riscaldamento in Svizzera e Germania lo scorso marzo, Ghigo Renzulli e Piero Pelù si sono ritrovati ufficialmente ieri sera sul palco del Forum di Assago, prima delle cinque date di aprile, a cui ne seguiranno altre 13 in estate, a partire da Nori (Bari), il 17 di luglio.
Poche dichiarazioni, una sola intervista ad un mensile (in cui smentivano la classica tesi del ritorno per questioni monetarie), alcuni pensieri affidati ad un comunicato stampa, e molta voce alla musica: questa la strategia del ritrovato duo. "Non ce lo aspettavamo, poi è andata come è andata e continueremo a far concerti per tutta l'estate. Sul palco ci sarà la classica formazione Litfiba, voce, chitarra, basso tastiere e batteria per un concerto tutto suonato, un live suonato al 100%. Può apparire controcorrente questa scelta, ma pensiamo che si possa dare un segnale in controtendentza e avere uno stile", dicono nel comunicato.
Scenografia volutamente scarna, in cui troneggiano molti amplificatori e qualche luce, nessun effetto tecnologico, nessun megaschermo. L'entrata sul palco è tutta tesa a dimostrare che i Litfiba sono quelli di una volta: Pelù, lungocrinuto come ai tempi d'oro, anticipa l'attacco di "Proibito" con un un po' di slogan ("Benvenuti al concerto di chi va controcorrente"), e durante la serata continua indirizzandone altri al Papa (a cui viene dedicata "Bambino" "perché una volta era bambino anche lui"). Il pubblico, che già rumoreggiava per l'attesa, apprezza entusiasta, tributando un'ovazione al primo assolo di Ghigo. L'attaccamento al marchio Litfiba è ancora altissimo, nonostante dalla separazione tra i due siano passati dieci anni, e le prove della band guidata dal solo chitarrista non abbiano ottenuto lo stesso successo.
Il suono del gruppo è decisamente rock, volutamente un po' sporco, anche in brani originariamente più puliti come "Spirito". L'acustica del Forum non aiuta, enfatizzando molto la sezione ritmica, in cui spicca soprattutto la batteria, persino troppo presente nell'impasto. "Abbiamo lavorato con i musicisti con i quali ultimamente abbiamo avuto più feeling", dicono i due, e infatti in formazione ci sono Piero Fidanza alla batteria, già nelle ultime uscite con Renzulli, Daniele "Barni" Bagni al basso, in formazione nella seconda metà degli anni '90, e Federico "Sago" Sagona alle tastiere, al lavoro con Pelù negli ultimi tempi. Non sono stati coinvolti nella reunion membri storici come Antonio Aiazzi (che pure era rientrato nel 2003, rimanendo fino al 2006), e Gianni Maroccolo, uno dei fondatori, uscito nel 1989, ma che pure aveva proposto in passato l'ipotesi di celebrare in qualche modo "17 re", il doppio album dell'86 considerato il capolavoro della band.
Insomma, la reunion è una questione a due, e lo si capisce anche dalla scaletta, che lascia completamente fuori "Infinito", l'ultimo disco della vecchia formazione, quello della discordia e della separazione con Pelù, e i dischi prodotti dopo l'uscita di quest'ultimo nel 1999. Un vero e proprio "best of", che parte in quarta: dopo "Proibito" arriva subito "Resta" seguito da "Cangaceiro", e così via. "Lulù e Marlene", "Come un dio", "Fata morgana", "Gioconda", "Ritmo 2", "Maudit", "El diablo", "Lacio Drom", per un totale 24 canzoni, più di due ore di spettacolo. L'intesa tra i due sembra ritrovata, al di là delle speculazioni: Pelù gigioneggia come se il tempo non fosse mai passato, Ghigo fa altrettanto con la chitarra, sbizzarendosi nella parte centrale di uno dei pezzi più apprezzati della serata, "Tex", introdotto dal famoso urletto di Pelù. In scaletta nessun inedito, neanche quel "Sole nero" che andrà in radio tra poco e che anticiperà un best of discografico, con un'altra nuova canzone. Si parla anche di un DVD dalle date di questi giorni, ma non ci sono ancora conferme ufficiali.

14 aprile 2010

Intimidazioni a ripetizione contro la cooperativa Valle del Marro



Coltivare prodotti in un terreno prima appartenente alle famiglie malavitose rappresenta uno schiaffo insopportabile per i clan. A Gioia Tauro, in località Pontevecchio, si trova un terreno confiscato. Ignoti hanno rimosso e fatto a pezzi i lucchetti del capannone e del cancello posto all’ingresso di un terreno e compiuto un'effrazione a titolo dimostrativo. La forzatura è stata compiuta solo allo scopo di sottrarre temporaneamente il furgone aziendale. Nella simbologia mafiosa l'atto significa una minaccia traducibile semplicemente così: "Dei vostri beni possiamo disporre come vogliamo, e ve lo dimostriamo, state attenti". La cooperativa Valle del Marro di Libera Terra non è nuova a questo genere di episodi minatori. Un attentato simile si era verificato il primo aprile scorso. E nel marzo di quest'anno ignoti avevano rubato a Polistena l’auto del vice- presidente della cooperativa per poi abbandonarla, dieci giorni dopo, in una via della città di Rosarno, danneggiando irreparabilmente gli interni.

Questo rosario di intimidazioni non ha scoraggiato Libera, che per bocca del suo fondatore, don Luigi Ciotti ha stigmatizzato gli accadimenti dolosi: "La serie di intimidazioni contro la cooperativa Valle del Marro di Libera Terra nella piana di Gioia Tauro, ultima quella odierna, provoca disorientamento e fatica. E tuttavia, al di la' delle loro intenzioni, questi continui gesti vili sono un buon segno, sono la riprova del positivo che in terra di Calabria stiamo cercando di costruire anche grazie alla preziosa opera di magistratura e forze dell'ordine, ell'associazionismo, del mondo cattolico e di molte amministrazioni attente". E ha ragione il portavoce dell'associazione: "Il lavoro che insieme stiamo realizzando - prosegue Don Ciotti - e' un positivo che allarma e infastidisce chi vuole continuare a imporre le logiche della violenza e del profitto illecito. Un positivo che dovremo alimentare giorno per giorno con il contributo di tutti: cittadini e associazioni, istituzioni e chiese. La lotta alle mafie e alle organizzazioni criminali si snoda lungo un percorso tortuoso, spesso in salita, che richiede continuità, coerenza e strategie volte non solo a reprimere i fatti criminali ma a sradicare, attraverso proposte sociali e culturali concrete, la mentalità mafiosa che sta alla base di questi fatti. "I tentativi di intimidazione - conclude il religioso - non hanno fermato in passato ne' fermeranno la scelta, l'impegno, la determinazione di Libera e della sua rete nell' opera di restituzione alla collettività in Calabria come in tante altre parti del paese, di quanto le mafie hanno sottratto con la violenza e la minaccia". La politica, quella che non ha dato tregua ai calabresi nelle settimane della campagna elettorale, tranne qualche significativa eccezione, è stata afona o ha avanzato la solida solidarietà dei comunicati, che i portavoce degli amministratori tengono nelle cartelle stampa, già prestampati e pronti per l'uso. Per non fare mancare la propria voce al coro dell'inutile.

11 aprile 2010

Gasparri attacca Emergency



Tre operatori italiani dell'ospedale di Lashkargah, nella provincia meridionale di Helmand sono stati arrestati con l'accusa grottesca, inverosimile di essere coinvolti nel complotto per uccidere il governatore locale Gulab Mangal. Il rappresentante politico del centrodestra Maurizio Gasparri non trova di meglio da fare che attaccare l'ong guidata da Gino Strada: "Già in occasione di altre vicende - sottolinea l'esponente del centrodestra - emersero opinabili posizioni e contatti di Emergency. Ora, che ci fossero armi in luoghi gestiti da questa gente si è visto chiaramente su tutte le televisioni. Il nostro governo deve tutelare la reputazione dell'Italia che impegna le proprie Forze armate in Afghanistan e in altre parti del mondo a tutela della pace e della libertà minacciate dal terrorismo". Sembra di sentire Berlusconi che definiva Gina Strada "un medico dalle idee confuse". E' in atto una strategia per togliere di mezzo un testimone scomodo dall'Afghanistan.

10 aprile 2010

Pasqua a Sant’Onofrio. Passaggio dalla sudditanza alle cosche alla liberazione



La notizia che a Sant’Onofrio sono stati sospesi i riti dell’Affruntata, segno di una fede popolare che si rigenera e si tramanda da secoli, è corsa veloce nei nostri territori. I fatti sono ormai noti: l’attuale vescovo della diocesi di Vibo, in piena sintonia con le indicazioni della Chiesa italiana e dello stesso episcopato calabro, ha ribadito la ferma volontà che nelle comunità ecclesiali della sua diocesi i momenti liturgici non diventino occasione per esprimere consenso ai vari clan della ‘ndrangheta. Ed il parroco della comunità di Sant’Onofrio, assieme alla Congrega che cura per tradizione il rito dell’Affruntata, hanno presentato ai fedeli della parrocchia le autorevoli indicazioni del vescovo che, tra l’altro, miravano a tenere lontani i mafiosi dalla partecipazione attiva ai momenti più significativi dell’Affruntata. Infatti per i mafiosi di Sant’Onofrio, ma anche di molti altri centri della Calabria, il portare a spalla San Giovanni, la Madonna Addolorata o il Cristo Risorto, o stare sotto le statue magari solo appoggiando la mano accanto ai portatori delle vare, è una occasione privilegiata per esprimere alla gente del posto dove si celebrano i festeggiamenti il loro potere ed il loro ruolo egemone.

La mescolanza tra religiosità popolare e simbolismi mafiosi ha radici lontane. Per molto tempo, anche grazie alla complicità di una comunità ecclesiale a volte troppo comprensiva e tollerante, si è ritenuto che fosse conciliabile l’appartenenza alla criminalità organizzata con la vita cristiana. I mafiosi si consideravano e si considerano ancora buoni cristiani, addirittura uomini d’onore: le loro mani, con una facilità diabolica, passano così dall’uso delle lupare per distruggere vite umane all’abbraccio di un legno per portare il peso di una statua in processione; mani che prima cercano la mazzetta ai negozianti o che strozzano le vittime dell’usura e che sono anche capaci di cercare le offerte per sostenere le spese per le feste patronali. Mani insanguinate da delitti orribili che tengono schiave della violenza intere comunità di calabresi che avvelenano anche i più antichi e simbolici riti della religiosità popolare.

Alla comunità ecclesiale e ai membri della Congrega di Sant’Onofrio, al Priore ed al parroco, i cristiani calabresi e tutti gli uomini di buona volontà devono essere grati: la loro testimonianza può servire a tutti noi per riscoprire le autentiche radici della nostra fede cristiana che, seppur sempre aperta all’accoglienza e al perdono del peccatore che si converte, si fonda sul messaggio del Cristo, che ha dato la sua vita per la nostra salvezza, che ci ha indicato la via del servizio che si fa dono, dell’impegno che cerca la giustizia, della speranza che si alimenta nella relazioni autentiche e leali, della non violenza che si vive nella quotidianità dei gesti e nel rispetto della vita di ogni fratello. Nella Chiesa del Signore non ci può essere spazio per i violenti e gli assassini, per i mafiosi che collegati ai vari gruppi della ‘ndrangheta seminano solo dolore e morte. Ce lo insegnano i vescovi italiani anche nella loro ultima nota pastorale “Per una chiesa solidale, Chiesa Italiana e mezzogiorno” quando affermano che: “in questa situazione, la Chiesa è giunta a pronunciare, nei confronti della malavita organizzata, parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche, come peccato, conversione, pentimento, diritto e giudizio di Dio, martirio, le sole che le permettono di offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana e civile”. Le mafie, hanno detto i vescovi italiani, “sono la configurazione più drammatica del male, e del peccato (…) una forma brutale e devastante del rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato”. Ed è l’indicazione che è chiaramente presentata anche dai vescovi della Calabria nel documento “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” dell’ottobre del 2007, che deve orientare le scelte pastorali delle comunità cristiane calabresi e che ci fa riassaporare la forza del messaggio di quel documento del 1975 che mons. Giovanni Ferro, vescovo di Reggio, scrisse per i cristiani calabresi e che descriveva la mafia come “disonorante piaga della società”.

Sono fatti, quelli accaduti a Sant’Onofrio, che ci fanno ancora sperare che è possibile una Calabria nuova e libera dalla criminalità organizzata, che possiamo aver fiducia in questa nostra Chiesa che, pur portando il peso della fragilità umana, continua ad illuminare la vita dei cristiani e degli uomini di buona volontà. Le mafie, hanno detto i vescovi calabresi, “di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e per l’avvenire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana”. Sant’Onofrio ci ha dato un grande esempio di cristianità che dobbiamo saper accogliere come un autentico segno di fede. Forse quest’anno a Sant’Onofrio si è celebrata la vera “Affruntata” anche se le statue dei santi sono rimasti nelle chiese.

da Calabria Ora 07/04/2010

06 aprile 2010

Saviano e il Pd


Luca Mastrantonio per "Il Riformista"

Al Pd serve un «papa straniero», da cercare in «libertà», «fuori» dai parametri di «età, appartenenza e nomenklatura». Così Ezio Mauro su Repubblica. Ieri Emanuele Macaluso ipotizzava una discesa in campo di Carlo De Benedetti. Il quale avrebbe invece un sogno proibito: Roberto Saviano. Lo scrittore di successo che il gruppo dell'ingegnere ha trasforato in star politica. Giovane, profeta in patria, libero da schemi partitici.

Saviano ha pose ieratiche, è costretto a vita claustrale, esercita su molti un magistero morale fuori dagli schemi politici, ma fin dentro il cuore delle Istituzioni, il Quirinale. Forse è davvero a lui che De Benedetti pensa per quel trono vacante del Pd. Mediatica figura Christi, nella personale lotta alla criminalità, Saviano oggi è esposto più come attore politico-civile che come scrittore. L'ultimo libro è un cofanetto di Stile libero con il dvd del monologo da Fabio Fazio, e il penultimo, "La bellezza e l'inferno" (2009) è una raccolta di scritti di Repubblica.

S'è intensificata, invece, l'attività politica, attraverso Repubblica che lo usa come polena. L'appello dello scrittore del 15 novembre 2009 contro il processo breve, rivolto a Berlusconi, è arrivato a mezzo milione. Trentamila adesioni sono invece arrivate a Facebook in seguito all'articolo di Saviano su Repubblica («Per un voto onesto ci vorrebbe l'Onu»), contro il voto di scambio. Ma come è nato questo amore?
saviano -manifestazione per la libertà di stampa

Fondamentale l'Espresso diretto dall'abile Daniela Hamaui, e la mediazione di Gianluca Di Feo, per consacrare Saviano alla galassia debenedettiana. Il settimanale ha trasformato l'autore di Gomorra nell'Hunter Thompson italiano, dedicandogli copertine su copertine (foto di Mario Spada) per i suoi reportage-inchiesta su droga e altri crimini, in uno stile Gonzo che ha nell'io il baricentro della narrazione. Ma da osservatore scomodo - prima sul campo, poi fuori campo, sotto scorta - di questo Paese in guerra contro la camorra, vive una condizione di schizofrenia politica-editoriale. Come il Joker di Full Metal Jacket, che ha sull'elmetto il motto dei marines «born to kill» e lo stemma della pace.

Sul piano politico-civile è un prodotto del Gruppo Espresso-Repubblica, organo dell'antiberlusconismo di massa, sul piano editoriale è figlio, legittimo, del gruppo Mondadori. Non solo perché pubblica i suoi libri con la casa di Segrate, ma perché è mondadoriana la rivista-palestra di Saviano, Nuovi argomenti. Per Saviano, a differenza di De Benedetti, Mondadori non è un lodo, ma un nodo, giudicato gordiano, da tagliare, da quanti gli chiedono di cambiare editore per i libri, come il poeta Vincenzo Ostuni e altri scrittori su Facebook.
Daniela Hamaui Paolo Scarpellini Licia Granello

Politicamente, è un enigma. Corteggiato da tanti, non cede, per ora. «Devo essere super partes, come scrittore», dice. Mediaticamente, Saviano nasce il 26 settembre del 2006, quando l'autore di Gomorra (all'epoca quota 100mila copie), durante le giornate di mobilitazione contro la camorra, fa nomi e cognomi dei padrini dalla piazza centrale di Casal di Principe. Le Iene registrano gli insulti che ricevette dal padre del boss Sandokan. Accanto, sul palco, c'era Fausto Bertinotti. Sui tetti, invece, cecchini per la sicurezza. Tema che, da quel momento, diventa il testo che Saviano ha tatuato addosso.

Poche settimane dopo, su ordine dell'allora ministro degli Interni Amato, l'autore ottiene la scorta. Walter Veltroni ha provato inutilmente a portarlo nell'alveo Pd. L'ultima proposta politica è del socialista Claudio Fava, Sinistra Ecologia Libertà, che lo aveva indicato alla guida della Campania per il 2010, incontrando favori nel Pd e qualche scontento, per vecchi mal di pancia. Rosa Russo Iervolino nel 2008 provò a minimizzare l'opera dello scrittore, sostenendo che «Scampia non è Gomorra».

Ma anche Nichi Vendola, difensore di Saviano e come lui cultore di alcuni stilemi pasoliniani, sottolinea che non è tutto Gomorra, la sua Puglia, per esempio. «Non è Gomorra», dice.

Il dato più interessante, sul piano politico-antropologico, è però la stima di cui gode a destra. Negli ambienti ex An, orfani del faro Borsellino, è molto apprezzato. Non sono mancati gli scontri, in particolare con l'ex ministro Mario Landolfi, parlamentare del Pdl, inquisito per concorso in corruzione. In Sgmorra attacca la sinistra in Campania e i professionisti dell'anti-camorra (cortocircuito tra Sciascia e Saviano).

Per FareFuturo, però, Saviano è un classico. Lui stesso non si vergogna di rivendicare maestri letterari a destra, così come in tempi non sospetti ha elogiato l'attività antimafia del ministro Maroni. Ai leghisti non è andato giù l'intervento all'Accademia di Brera dove parlava di Milano come della più grande città del Sud Italia. Saviano divide. Piace, dispiace.

Per molti, con la recente partecipazione allo scorso no B-day, c'è stata la svolta. A sinistra. Saviano piace alla luttuosa machina da guerra politica del popolo viola. Come autore porta in dote, solo in Italia, più di due milioni di lettori, con un solo romanzo. Allettanti.

Ma fedeli nelle urne? Lui è uno scrittore serio, come ha ricordato Francesco Piccolo sull'Unità, di cui c'è bisogno per raccontare l'Italia. Per governarla, servono politici seri, magari meno romanzieri. Se i politici-scrittori, d'altronde, sono usciti fallendo, da Veltroni a Franceschini, e la neo-giallista Bresso, gli scrittori in politica, da Camilleri a Carofiglio, non fanno vincere le elezioni.