06 agosto 2009

Il cappio del giornalismo



Chi fa il giornalista deve essere animato da furore dietrologo, paranoico, impavido, per altri versi interpretare il ruolo di iena-ficcanaso. In una significativa intervista rilasciata al mensile "Il Mucchio Selvaggio" Paride Leporace, autore del libro Toghe rosso sangue direttore del Quotidiano della Basilicata (già a capo della testata Calabria Ora) fornisce delle indicazioni importanti sui condizionamenti che insistono sull'attività giornalistica di ogni giorno, specie quando riguardano una piccola testata del Sud Italia.

"Il giornale lo devi vendere alla classe dirigente locale che non può essere un bersaglio continuo della testata, altrimenti ti isolano", rivela Leporace.

E ancora incalzato dall'eccentrico Max Stefani:"Ma allora al Sud quali rischi si incontrano ad affrontare certi argomenti?". Leporace risponde senza indugi: "Soprattutto le querele. Sul fronte mafiosi la Basilicata è tranquilla. In Calabria devi stare attento ai piccoli capirioni. Possono essere pericolosi. I boss si muovono diversamente. I peggiori sono i colletti bianchi con buoni avvocati".

I giornali vivono di raccolta pubblicitaria e sovvenzionamenti pubblici; le vendite stanno diventando una voce secondaria nei bilanci delle testate, che vengono gestiti come aziende brandizzate. Per addomesticare un giornale ostile, indirettamente si possono erogare dei contributi per piegare perfino le argomentazioni degli editoriali più spigolosi ed enfatizzare le iniziative più irrilevanti, facendole assurgere a svolte epocali. Per il popolo bue l'ignoranza è forza.

I giornali sono diventati un immenso blob, la loro sopravvivenza minata dall'avanzata del web, dove si possono ancora reperire sacche di informazione autonoma e non militarizzata. Altro che ultima trincea della democrazia.

1 commento: