29 agosto 2009

Libero Grassi: la lotta al racket diventa maggiorenne


Il 29 agosto del 1991, alle 7.30 circa di una mattinata calda e torrida di quelle che solo l’estate palermitana è capace di offrire spesso e volentieri, l’imprenditore Libero Grassi viene ucciso a colpi di pistola, lungo un marciapiede di via Alfieri, nei pressi di casa sua. È solo quando i killer lo raggiungono, appena pochi minuti prima che si appresti ad aprire la sua fabbrica di pigiami e biancheria, come ogni mattina.

A sessantasette anni di età, la morte di quest’uomo coraggioso è una morte annunciata – anche questo come da macabro copione accade spesso e volentieri in Sicilia – dopo che la ribellione all’imposizione del pizzo mafioso, amplificata dai mass media nazionali, ne ha fatto un personaggio pubblico. La condanna a morte è un atto dovuto agli occhi dei mafiosi: già di per sé non sarebbe tollerabile il rifiuto al pagamento della protezione accordata dalle cosche, ma assolutamente insopportabile diventa il tentativo disperato ed isolato messo di trovare alleanze all’interno di quel mondo del commercio e dell’imprenditoria nell’azione di contrasto al racket. Un mondo del commercio e dell’imprenditoria che spesso e volentieri preferisce trovare un accordo con gli estorsori, come apprende sulla propria pelle in quei mesi la vittima annunciata.

La storia di Libero Grassi è per forza di cose riassumibile in quell’aggettivo divenuto nome di battesimo in ricordo dell’uccisione di Giacomo Matteotti, spazzato via dalla violenza di un regime fascista all’apice della sua potenza. Come Matteotti, Grassi reagisce alla violenza criminale con la parola che si fa gesto di ribellione, mettendo in atto una rivolta etica e morale, personale prima che pubblica, nei confronti di chi vuole trasformare i diritti in favore. Da sempre la mafia pratica un’estorsione diffusa e soffocante, proprio come mezzo principale per affermare la propria signoria su un determinato territorio, una sorta di presupposto fondamentale per poter svolgere in tranquillità i propri illeciti affari.

Un ricco bagaglio culturale, costruito con anni di studio e di lavoro che lo hanno portato fuori dalla sua amata Sicilia, nato a Catania ma cresciuto a Palermo, Libero Grassi quando fa ritorno in Sicilia scopre subito di essere un pesce fuor d’acqua, visto il contesto omertoso e complice che scopre con fastidio allignare soprattutto in quella borghesia che riteneva immune dal cancro mafioso. Gli anni della maturità li divide tra l’impegno imprenditoriale, avviato in compagnia della moglie Pina Maisano, e la politica attiva, altra passione che condivide con la donna che ha sposato. Un impegno agito prima nelle file del Partito Repubblicano e poi in quelle del Partito Radicale.

La sua Sigma, fabbrica messa in piedi con sudore e volontà, attirano ben presto le attenzioni della mafia, in ragione anche del fatturato che raggiunge i sette miliardi di lire. Siamo agli inizi degli anni Novanta, quando iniziano a manifestarsi le prime richieste estorsive. Fino a quel momento i mafiosi non si erano fatti avanti, forse per la vicinanza della fabbrica di famiglia alla vecchia vetreria di Don Masino Buscetta, in via Dante. Una sorta di protezione indiretta e non richiesta ovviamente; il famoso “boss dei due mondi” evidentemente incute soggezione solo a sentirne il nome e solo per questo vicinato fortuito la vedova Grassi si spiega l’assenza di pressioni criminali. Quando la sede della fabbrica viene trasferita in via Thaon di Revel, infatti, arrivano puntuali gli approcci estortivi e le minacce si fanno più incalzanti. Vengono prima rubate le buste paghe, poi le telefonate minatorie si fanno insistenti, sempre più insistenti. Di fronte a questa escalation, Grassi reagisce sempre e soltanto in unico modo, denunciando i fatti alla polizia, alla quale consegna anche simbolicamente le chiavi della fabbrica, per indicare platealmente la scelta di volere la tutela dello Stato e non dell’antistato mafioso, che si fa vivo, telefonicamente e sotto le sembianze di un fantomatico “geometra Anzalone”, per reclamare un contributo e minacciare rappresaglie fisiche contro la famiglia e l’attività economica di Grassi.

Matura in quei mesi la scelta di pubblicare sul “Giornale di Sicilia” una lettera con la quale manifesta a chiare lettere la sua volontà di andare fino in fondo contro il racket: “Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere”. Poche parole per esprimere una profonda etica del lavoro, finanche di stampo protestante visto il contesto di accomodamenti e collusioni che costituiscono la normalità dei rapporti tra impresa e mafia in terra di Sicilia.

È il 10 gennaio del 1991 quando la lettera pubblicata suscita discussioni e polemiche a non finire. Inizia così il tragico conto alla rovescia che vede impegnato Libero Grassi in una disperata corsa contro il tempo per aggregare consensi e trovare risposte alla sua scelta solitaria di contrastare il racket mafioso che opprime Palermo. Le reazioni però sono di segno opposto e non lasciano spazio ad alcuna solidarietà, anzi. I vertici dell’imprenditoria cittadina e regionale fanno a gara per sminuire la portata della coraggiosa denuncia pubblica. Accuse di protagonismo nel migliore dei casi – “una tammuriata” il commento più cinico – ma si arriva anche alla calunnia personale.

Opinione pubblica e politica stanno a guardare e ad accrescere lo stato di isolamento arriva proprio in quei mesi una clamorosa sentenza dal Tribunale di Catania che certifica paradossalmente la pacifica convivenza tra imprenditoria e mafia. Alcuni “cavalieri del lavoro”catanesi vengono assolti dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, in quanto il pagamento accordato al clan Santapaola in cambio di protezione sarebbe stato originato da un non ben definito “stato di necessità”: Grassi si sfoga durante un’assemblea studentesca, definendo scandalosa la sentenza, forse perché inizia veramente a comprendere che attorno a sé si sta creando il vuoto.

Concetti sui quali torna ampiamente e lucidamente nel corso dell’aprile 1991 negli studi di“Samarcanda” in onda su Rai Tre. Ai microfoni della trasmissione diretta da Michele Santoro, Grassi confessa tutta la sua amarezza, dichiarando tra l’altro: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”. Nel frattempo la polizia arresta alcuni uomini del clan Madonia, al quale si fanno risalire le richieste di estorsione. Dalle pagine de “L’Ora”, l’imprenditore sminuisce la sua scelta in termini di coraggio, riconducendola sul piano della convenienza in favore dei propri interessi economici. Nonostante tutto, la vicenda di Libero Grassi, suo malgrado, diventa l’emblema della ribellione al potere mafioso. La scelta di portare lo scontro in pubblico non piace alle cosche che ovviamente reagiscono come quando sono in difficoltà e l’omicidio resta l’unica misura rimasta a disposizione.

Dopo il barbaro asssassinio, il funerale in forma laica e la volontà espressa di non vedere affisse lapidi nel luogo dell’agguato sono scelte che la famiglia prende coraggiosamente per dare continuità alla coerenza manifestata in vita da Libero.

Quello che è avvenuto dopo quel 29 agosto 1991 è storia di questi anni recenti: la presa di coscienza della necessità di una battaglia antiracket per sviluppare il paese e liberarlo dal giogo mafioso; l’approvazione di una nuova normativa a sostegno dell’imprenditoria e la condanna di killer e mandanti dell’omicidio Grassi, ma anche e soprattutto una battaglia antiracket, che si radica in Sicilia a partire dall’esperienza pilota di Capo D’Orlando e che spinge un commerciante, Tano Grasso, prima in politica e poi come Commissario antiracket a raccogliere con passione e competenza il testimone del suo quasi omonimo, Libero Grassi. Nasce successivamente anche il FAI (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane) che raccoglie tutte le associazioni antiracket che nel frattempo nascono in ogni parte d’Italia. Tutti passi importanti che non devono però far dimenticare anche le tante ombre che accompagnano la battaglia contro il racket di questi anni, perché non tutti sembrano aver introiettato la lezione di chi ha pagato con la vita il suo coraggioso no al pizzo. Una politica disattenta inoltre non sempre sembra in grado di accompagnare i gesti coraggiosi di imprenditori e commercianti.

E arriviamo ai segnali che segnano l’avvicinamento del movimento antiracket alla maggiore età: sono infatti trascorsi ben diciotto anni dall’uccisione di Libero Grassi. Per una persona il raggiungimento dei diciotto anni d’età rappresentano non solo un traguardo ma anche un inizio. Il diciottesimo anno è sempre tempo di bilanci, con un occhio benevolo rivolto al futuro.

Oggi è lecito guardare con maggiore speranza al futuro, anche perché dal sacrificio di quell’uomo sono maturate scelte importanti che hanno nomi e volti. Sono i nomi e i volti dei giovani di “Addio Pizzo” e dell’associazione di imprenditori e commercianti palermitani “Libero Futuro”, ma anche dei vertici della Confindustria siciliana che sembrano, con un impegno quotidiano e senza sconti per nessuno, in grado di aprire una nuova stagione nel contrasto al racket mafioso.

“Splendido esempio di integrità morale e di elette virtù civiche, spinte sino all'estremo sacrificio”: così tra l’altro si legge nella motivazione che ha accompagnato la concessione della medaglia d’oro al valore civile in memoria di Libero Grassi. Riletto a diciotto anni di distanza, può sembrare un riconoscimento postumo forse tardivo, ma pur sempre importante. Dopo diciotto anni di battaglie e speranze, forse è davvero lecito sperare in un futuro migliore.

Lorenzo Frigerio (Libera - Milano)

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