13 settembre 2010

Libri da non peredere - Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa



dal blog http://falsoidillio.splinder.com/

Romanzo italiano. Un gruppo di ragazzi diventa adulto nell’Italia del Sud durante gli anni ’80: si incontra, affronta delle prove, misura gli ideali con la realtà, entra in conflitto con la generazione precedente con cui consuma una spaccatura completa, fino a sfiorare l’autodistruzione e ad accedere, previo evento sacrificale (l’overdose), all’età adulta.

Romanzo di formazione con pretese di affresco sociale di un’epoca e di radicale presa di posizione politica sull’oggi. Come è tipico del genere, la prospettiva è di tipo eroico. Il protagonista e i suoi amici si trovano a vivere uno snodo decisivo non solo della propria vicenda, ma della vicenda collettiva, un momento in cui la storia precipita e della quale i protagonisti sono agenti e narratori assieme. In quell’istante la storia accede a una finestra di “conoscenza di sé” costituita dagli occhi dei ragazzi, uscendo dalla pura inconsapevolezza animale. Il protagonista è il centro di questo movimento interno, che divide il tempo eroico dalla prosa del mondo. Il tempo eroico coincide con la giovinezza. Come da genere, tutto ciò che è importante accade a 20 anni (qui, addirittura, a 16 è già tutto finito): il resto è una meditazione sulla sconfitta, o una coazione a ripetere, o una fuga, o un seppellimento. Nella più tipica visione romantica, a 20 anni vivi (e in genere sei sconfitto, come si conviene in una concezione piuttosto generosa di sturm und drang), a 40 ti annulli nell’oblio per non pensare a ciò che è successo, a 60 sei di fronte a un muto terrore.

Questa struttura rende debordanti gli elementi propri del romanzo di formazione rispetto a quelli di critica socio-culturale, e questo malgrado il grande sforzo di contestualizzazione operato attraverso massicci inserti di cronaca del tempo, televisione e musica pop in primo piano. Non c’è traccia, del resto, di alcuna meditazione interna sulle questioni che la ricostruzione di una verità storica "romanzata" potrebbe sollevare, né alcuna consapevolezza dei limiti narrativi e mitografici e nessun conseguente allestimento di una macchina in qualche modo autoriflessiva (come ad esempio in De Lillo, che in Underworld non si limita certo a costruire un fondale ingenuamente tendenzioso o rancoroso). Qui, quello che è accaduto è ciò che il protagonista ricorda e il suo punto di vista di oggi, mero sviluppo di quello di allora, “sa”, riferisce i fatti così come si sono svolti, senza residui. La blanda metafora dell’indagine che il narratore usa per riprendere i fili del passato, mandando il protagonista a interrogare i superstiti di allora, ha un valore di puro escamotage narrativo e non comporta alcuna presa di distanza. Il postmodernismo e le sue domande, in altri termini, non aono attraversate né propriamente ignorate, sono usate in modo spurio, una sorta di salvacondotto per adottare un atteggiamento utilitaristico: la letteratura entra nella storia collettiva a piedi uniti in cerca di un risarcimento, ma è dubbio che lo possa trovare, e restare letteratura.

Malgrado l’accento messo sulla “formazione dell’eroe”, la motivazione del testo non sta nel movimento in avanti, ma in quello all’indietro, cioè nella rimemorazione vissuta come terapia, attraverso l’approdo alla scrittura come salvezza e privilegio spirituale. Il protagonista che ricorda è così un concentrato di disincanto, amarezza e consapevolezza. Qualità, la consapevolezza, di cui sono ricchissimi i protagonisti giovani e del tutto privi gli altri, i padri in particolare, cui pur dovrebbe essere concesso il beneficio del dubbio (in fondo anche loro hanno avuto una giovinezza; ma in questa prospettiva la giovinezza che vale è solo quella di chi racconta).

L’idea di essere stati toccati da un’epifania decisiva poi ritrattasi per sempre (e, più al fondo, l’idea che la vicenda personale rifletta la vicenda storica, e ancora di più l’idea che la storia fluisca attraverso un corso principale che coincide con la vicenda propria, ad esclusione di quella altrui, cioè di chi ne viene solo giocato e la vive ai margini, non comprendendola), questa idea si accorda con la divisione del mondo noi/loro - di tipo propriamente morale, se non addirittura estetico - e con la prospettiva ideologica che attraversano il testo.

La chiave d’accesso per l’ideologia del testo è quindi la sua tonalità emotiva di fondo. Su tutta la vicenda è dominante il suono aspro del rancore, che continua a risuonare a lungo nelle orecchie dopo aver posato il libro. Fino a che, sfumando l’impressione, il lettore può domandarsi da dove provenga e come si giustifichi tutto questo rancore. Cos’è successo di così sconvolgente ai personaggi, durante quel loro sedicesimo anno di età, da segnare le loro vite per i decenni successivi? E, fuori di metafora, cosa è successo al Paese?

Che gli anni Ottanta rappresentino uno snodo fondamentale del nostro recente passato collettivo - e uno snodo in cui l'esaltazione di alcuni e la tragedia di altri si sono mischiate fino in fondo - è una nozione piuttosto assodata; quel che conta è però la lettura che ne dà l’autore e se sia o meno adeguata alla materia con cui si misura. Con chi ce l’ha il protagonista? Dove va rintracciata l’origine del suo rancore? Ce l’ha coi padri? Ma, a ben vedere, non c’è padre in questo libro che non brilli per mediocrità: sono piccoli uomini che mandano avanti piccole imprese, si fanno abbagliare dal denaro, cedono al lato oscuro ma persino nel male sono dilettanti, più adatti a una commedia all’italiana che a un dramma storico. Oppure la ferita ha sede nell’ennesima ricostruzione feticizzata di un’adolescenza “bene” – i ragazzi sono tutti benestanti provenienti da famiglie di recente ricchezza - fatta di feste, giradischi ed eccessi alcolici, di primi amori, di sesso e tradimenti, di incomprensioni tra genitori e figli che è improbabile caricare di toni epocali, ma meglio si adatterebbero allo studio dello psicologo di famiglia? Oppure si tratta della gita nei quartieri bassi che li ha sconvolti? Gli assai provvidenziali quartieri malfamatissimi, le classi basse in cui i giovani bene si addentrano come Conrad nel cuore di tenebra, con un misto di cattiva coscienza piccolo borghese e coloniale e di brivido della perdizione, qui nella forma della droga e di qualche figura di malaffare criminal-politico-affaristica, in ossequio ai gusti dei tempi: questa immersione “là dove i rapporti di forza sono più evidenti” (si sa, i poveri sono più rozzi ma tanto più “veri” di noi…), nel marcare in modo inconfondibile la loro provenienza di classe, condurrà tutti i protagonisti a diverse forme di sconfitta, più o meno pacificate, che solo l’enfasi narrativa riesce a presentare nella forma del dramma e che somigliano più un normale ri-accomodamento nei privilegi di provenienza.

Ma si può comprendere un ventennale rancore portato su scala storica con la scoperta della povertà? Come si passa dal piano degli eventi banalissimi che coinvolgono i protagonisti, tutti riconducibili all’ennesimo piccolo dramma familiar-borghese del passaggio all’adolescenza, al piano della condanna politica e sociale, qui ben condita dagli ingredienti del cospirazionismo, della consueta denuncia degli intrecci politica-affari criminalità mischiati con l’orrore televisivo del Drive-in e con la vulgata della società dell’immagine che ci ha resi tutti subumani?
In questo quadro le cose non tornano a sufficienza: troppa finta disillusione, troppo immotivato senso di sconfitta, troppo reducismo senza battaglie, in misura delle esperienze ordinarie che sono narrate, per quanto enfatizzate a dismisura dalla tromba del narratore. C’è una maniera, che non è nella scrittura ma nel tono, come se il rancore manicheo tenesse alla larga e nobilitasse, nella forma della rinuncia consapevole e dell’estetica del vagabondaggio esistenziale, la percezione di un altro sentimento, più corrosivo e inquietante: l’impotenza.
Non è solo impotenza personale opposta a onnipotenza percepita “nell’avversario”: è piuttosto un tratto comune e diffuso, una somma di impotenze che si può generalizzare e attribuire facilmente a un intero ceto e la cui origine pratica - effetto secondario, en passant, proprio di quel passaggio storico che il libro pretende di affrontare ma di cui coglie solo la superficie - è la percezione tanto netta quanto negata dell’assenza o perdita di ruolo sociale del narratore in quanto “creatore originale” e della sua riduzione a produttore seriale di storie, e di conseguenza dell’impossibilità di “essere parte attiva del ciclo sociale”: impossibilità con chiari risvolti etico-politici, che andrebbe riferita tanto a una classe, quanto a uno strato professionale, quanto a una generazione.
Un sentimento e una  poetica, questa dell’impotenza, che si esprimono in modi molto diversi nella letteratura italiana di questi anni, sintomo di un’immaturità politico-letteraria di fondo: come incapacità di attraversare la soglia adolescenziale ed entrare nell’età adulta che degenera in depressione (Giordano), come maniacalità (Nove), come feticismo e fissazione nell’infanzia e nella sua fine (certo Mari e il primo Moresco); come velleitarismo vitalistico (ancora Moresco, in parte Sorrentino); come esibizionismo onanistico (Scarpa). E a volte, appunto, come rancore manicheo.

Ecco, il rancore manicheo che attraversa tutto questo libro sembra funzionare come paravento, come occultamento dell’impotenza generale. Un paravento che tiene dietro tutta la ricostruzione storica del Paese, svolta all’insegna del moralismo, di un radicalismo privo di materialità, del tutto estetico. Questo il quadro che ne esce: noi eravamo i buoni e i migliori ma siamo stati sconfitti e oggi siamo saggi e depressi, incattiviti e un po’ ipocriti; quelli sopra di noi sono mostri volgari e arricchiti e quelli sotto ingenui subumani ormai perduti. Non è ciò che il medio acculturato di sinistra italiano oggi pensa a ogni passo? Un nemmeno troppo impegnativo apparato di autoindulgenza, incapace di andare al fondo, preoccupato di giustificarsi e abile nell’innescare meccanismi autoricattori nella forma di un "impegno" privo di sostanza o dell’indignazione di maniera nei confronti dei bersagli più ovvi, l’amarezza da reduce di guerre mai combattute che lamenta lo sfascio del Paese ad opera di affaristi senza scrupoli e signoramia, in definitiva, si salva il culo.

b.georg

Nessun commento:

Posta un commento