12 maggio 2010

Calabria 2010. La `ndrangheta fa politica, l'antimafia no

Antonello Mangano, tratto da terrelibere.org

Dai fatti di Rosarno fino alla manifestazione in favore del boss Tegano, la ‘ndrangheta ha ragionato e agito in termini politici, provando a porre rimedio a situazioni sfavorevoli (nel primo caso, la reattività degli africani alle violenze; nel secondo l’azione repressiva di polizia e magistrati mai così vigorosa). Tutti gli altri calabresi, invece, sembrano intrappolati dalla paura di essere giudicati negativamente dall’opinione pubblica nazionale. Una gabbia antica, da cui bisogna uscire.

“Un distendersi delle dune gialle, Cutro. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western”. Nell’estate del 1959 Pier Paolo Pasolini percorre la costa italiana al volante di una millecento per realizzare un reportage commissionato dalla rivista “Successo”. L’amministrazione comunale del paese crotonese presentò querela alla Procura di Milano: “La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro sono stati evidentemente e gravemente calpestati [...]. Le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate da centinaia di case linde, policrome, gaie […]. Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte, e non scrivendo articoli diffamatori contro i propri fratelli, contro gli italiani”. Spesso i calabresi sono troppo permalosi. In quell’occasione, infatti, Pasolini voleva celebrare - coerentemente con la propria ideologia - una terra fuori dalla storia e offesa dalla modernità, ma fu colto solamente l’accostamento – ritenuto offensivo - col continente africano.

Parla male di noi
A volte lo stesso meccanismo può produrre risultati grotteschi: “Dopo la liberazione di Cesare Casella alcuni bambini di San Luca lo vedono parlare con durezza alla tv dei suoi sequestratori e commentano: ‘Parla male di noi che siamo andati tante volte a fargli la spesa al supermercato’”, scrive Corrado Stajano sul Corriere della Sera del 20 febbraio 1992. A Reggio tutti ricordano ancora con sdegno la gaffe della BBC che depositò siringhe sul corso Garibaldi per filmare un degrado immaginario. E’ invece stata collettivamente rimossa la guerra da circa mille morti - nessuno conosce il numero esatto - che dal 1985 al 1991 produsse ferite inguaribili.
Sono solo alcuni episodi di una lunga serie che arriva fino a Curzio Maltese e Antonello Venditti: il primo scrisse un realistico reportage per Repubblica decorandolo con una sciocchezza (“;A Reggio un abitante su due è coinvolto in attività criminali”), il secondo disse durante un concerto in Sicilia “Ma perché Dio ha creato la Calabria?”, sottovalutando i cellulari di nuova generazione e il potere di diffusione di YouTube. Le reazioni furono furiose. L’ultima tappa della lunga serie di confronti-sconti tra calabresi ed esterni, presunti denigrati e subdoli denigratori è la manifestazione reggina a favore di Giovanni Tegano, latitante di rilievo, ultimo dei grandi boss comodamente nascosti nella propria città. E’ il 27 aprile. Una piccola folla si raduna di fronte alla Questura, lanciando slogan e ritmando applausi. La tensione si taglia col coltello. Un cordone di polizia tiene ai margini della strada parenti, affiliati, simpatizzanti.

Ancora una volta l’interpretazione prevalente si cristallizza all’immagine della città danneggiata più o meno volutamente dai media nazionali, che avrebbero evidenziato troppo l’episodio, o comunque lo avrebbero raccontato male. Non sembra che passi il tempo in Calabria, dal 1959 a oggi. Il problema è sempre difendere un’immagine inesistente e mantenere inalterata la realtà. Gli enti locali hanno speso cifre consistenti in campagne pubblicitarie (da quella enigmatica di Oliviero Toscani – “Incivile? Sì, sono calabrese” - fino alla sponsorizzazione della nazionale di calcio) che non hanno spostato di una virgola l’idea di “terra perduta” che prevale nel resto d’Italia.

Una miscela
Paradossalmente, la ‘ndrangheta è l’unico soggetto che è uscito da questa logica. Ha deciso di intervenire pubblicamente (nei disordini di Rosarno come nella manifestazione a favore di Tegano) decidendo che l’azione politica è più importante del risvolto mediatico. Lo ha capito la mafia, non ci è ancora arrivata l’antimafia.

Cavalcare la rivolta di Rosarno (la caccia al nero e la conseguente pulizia etnica del gennaio 2010) è servito a reprimere militarmente un elemento di disturbo e di progresso rispetto a un contesto sociale che per molti è quello della povertà e dello sfruttamento, ma per altri significa potere e denaro. Gli africani che facevano la fila per testimoniare di fronte alla caserma dei carabinieri, che scendevano in piazza contro la violenza mafiosa (lo avevano già fatto nel dicembre 2008) erano diventanti un potenziale pericoloso esempio da seguire per una popolazione mestamente assuefatta al sangue e all’ingiustizia. Come al tempo della rivolta di Reggio del 1970, si è ricreata a Rosarno quella miscela di estrema destra (basta leggere i comunicati di Casa Pound, La Destra e Forza Nuova identici a quelli dei comitati di cittadini), ‘ndrangheta e brava gente che diventa feroce grazie a una esasperazione indotta toccando i tasti giusti (le case devastate e le donne aggredite, come quarant’anni prima lo scippo del capoluogo a favore di Catanzaro).

Il tifo e la pace

I parenti e i sodali di Tegano non avevano alcun motivo per andare di fronte alla Questura inscenando quella farsa tragicomica. “Non sanno quello che dicono”, si è commentato dopo le urla “Giovanni uomo di pace” scandite tra i due marciapiedi del corso Garibaldi. E invece lo sapevano benissimo: uomo di pace, nel linguaggio mafioso, vuol dire banalmente garante di equilibri, come già notato dai giornalisti reggini Giusva Branca e Antonino Monteleone. Cari giudici e poliziotti, hanno voluto dire, prima di voi e degli arresti che hanno portato in carcere i capi delle famiglie storiche (Condello, De Stefano etc.) noi stavamo in pace (pace a Reggio vuol dire non troppi omicidi, pochi negozi che saltano, qualche automobile incendiata). Se le strade torneranno a sporcarsi di sangue sarà colpa vostra. Fermatevi dunque. Anche una frase apparentemente senza senso (“Con queste cose traumatizzate i ragazzi”) potrebbe significare che una manovalanza senza punti di riferimento non è controllabile.

La società civile reggina – il giorno dopo – organizzava una contromanifestazione assolutamente valida e necessaria, anche se pensata come risposta ai media nazionali, per contrapporre a una minoranza filomafiosa una maggioranza eticamente presentabile e che “tifa” dalla parte giusta. Una concezione puramente teatrale e non politica della questione. I pochi che si discostano da questa mentalità sono i magistrati: “Nella ‘ndrangheta solo i capi si arricchiscono davvero”, afferma il procuratore Pignatone. “Bisogna far capire ai nostri giovani che, oltre ai motivi etici e morali, affiliarsi o avvicinarsi al mondo della criminalità non conviene neanche a livello economico. Non vale proprio la pena di rischiare di rovinarsi la vita per poche centinaia di euro al mese”.

Non è stato sempre così. In passato la lotta alla mafia condotta dal PCI era affiancata da quella – propositiva – per il lavoro e lo sviluppo. Ai giovani era proposto un percorso coerente e un’alternativa migliore rispetto a quella di essere “telegenici”.

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