30 giugno 2010

Gli ultimi leninisti



di Adriana Pollice - Il Manifesto

In Italia c'è chi non ha mai smesso di preparare l'assalto al Palazzo d'Inverno: il cuore della rivoluzione bolscevica batte ancora a Ischia, a tenere viva la speranza Domenico Savio, protagonista del documentario Il segretario generale del Partito comunista italiano marxista leninista di Antonio Moreno. Sull'Isola verde nel golfo di Napoli, reddito medio pari a quello svizzero, si continua ostinatamente a parlare di lotta di classe: «Quello che mi ha affascinato - racconta il regista - non è l'aspetto originale o magari folkloristico ma l'avventura umana di un uomo ostinatamente attaccato alle sue idee. Mi domando: è giusto essere coerenti fino al punto di rimanere soli? Un interrogativo che credo sia fondamentale visto la deriva che sta prendendo il paese».
La sede del Pci-ml a Forio è dipinta di giallo e rosso in ogni minimo dettaglio, dalle rifiniture sulle porte alle ringhiere, le falci e martello sono ovunque, anche nel disegno delle mattonelle. Lo spazio è organizzato intorno alla sala per i dibattiti e alla biblioteca, sugli scaffali si trovano ad esempio le annate di Ordine nuovo rilegate in rosso oppure la raccolta completa delle opere di Stalin in italiano e in russo. Sulle pareti i ritratti dei padri fondatori, un Lenin in colori pastello o Marx in bianco nero, accanto al Premi Spartaco. Domenico Savio, settantenne agguerrito, ha ereditato la passione dal padre, famoso antifascista di Ischia, ha studiato da dirigente del Pci alle Frattocchie e ha trasmesso la passione al figlio, «terza generazione di comunisti», rivendica orgoglioso.
Gennaro, uomo di un'altra epoca, stampa i logo su carta adesiva, si occupa di volantini e merchandising, soprattutto cura il tg on line del partito quando torna a casa dal lavoro: telecamera, pc e connessione veloce, nello studio del suo appartamento fa il tecnico e anche il mezzobusto. Gli argomenti spaziano, «in diretta sulla radio de Il sole 24 ore Domenico Savio attacca a bruciapelo il padrone d'Italia Silvio Berlusconi: "si è arricchito sfruttando il mondo del lavoro"», ma anche i problemi fognari e le buche nelle strade, gli unici a segnalare il possibile disastro prima delle frane killer dell'anno scorso. Li si trova su Youtube, Youreport, sul loro blog (www.pcimltv.blogspot.com) ma il segretario generale di tanto in tanto fa delle incursioni corsare sulle tv nazionali: nei talk show di politica di Canale Italia tra leghisti ed economisti di seconda fascia, come Oscar Giannino, a difendere il partito di classe per la civiltà del futuro.
«Scoprii dell'esistenza del Pci-ml nel 2006 - spiega Antonio Moreno - quando lessi su un quotidiano che avevano preso alle elezioni 26mila voti, una piccola Cuba a Ischia! Nel 2008, con i partiti di sinistra a pezzi e fuori dal parlamento, ho pensato di fare un lavoro su Savio, uno che non si vergogna di usare un linguaggio veterocomunista in un'isola che è sempre stata un feudo democristiano, dove non hanno alcun seguito anche se poi tutti si fermano al banchetto per mettere le firme necessarie per presentare la lista al senato. Ci sono stato d'inverno, quando il glamour dell'estate sparisce e Ischia sembra un qualsiasi paese dell'entroterra dove ancora sopravvivono cose di un altro secolo come il vecchio militante del Pci e della Dc». E allora su un palco montato ad appena un metro da terra, in una delle piazzette di Forio, sotto un pioggia fine, Domenico Savio prova a convincerli a eleggerlo sindaco o, almeno, a mandarlo in consiglio: «Chi farà i vostri interessi? Certo non il medico a cui date il voto con la promessa della visita specialistica in tempi rapidi o dell'ingegnere» ma non si ferma nessuno e i sei sindaci di Ischia continuano in prevalenza a fare i dottori. Però un piccolo seguito ce l'hanno anche fuori dai confini isolani: «A Pomigliano durante un corteo per il Primo Maggio ho trovato un ex operaio che vota Pci-ml: sono gli unici che parlano di rivoluzione e io ancora ci credo in queste cose, ragiono con la parte sinistra del cervello, mi ha detto».
Al Festival di Bellaria, dove il documentario è stato presentato, in molti sono stati spaventati per il titolo: «Si aspettavano, forse, un lavoro paludato, magari ideologico ma io non volevo dimostrare niente né dare giudizi, sono stato con loro per vari mesi, telecamera e microfono, non faccio lavori di inchiesta ma di narrazione e quello che viene fuori è il lato umano, anche umoristico, magari surreale».
Padre, figlio e due attivisti, intorno però ci sono anche gli ex compagni del Pci, finiti in altre formazioni politiche. I più vicini, quelli quindi con cui litigare furiosamente, sono Francesco Monti e Gennaro La Monica, rispettivamente di Rifondazione comunista e del Pdci: «A sentirli discutere sembra siano lontanissimi ma quello che li divide soprattutto è il giudizio su Stalin, a loro non sembra possibile che Savio si ostini a difenderlo». Domenico Savio è fatto così, chiuso a difesa del «socialismo rivoluzionario realizzato nel ventesimo secolo» e le posizioni critiche dei suoi ex compagni di partito non le perdona: «Rappresentanti dell'ultimo Pci da cui sono venuti fuori partiti imborghesiti, trozkisti gorbacioviani ecco cosa siete, che Solgenitsin abbia detto quello che ha detto sui gulag si capisce, era pagato dall'occidente, ma pure tu Franco Monti... erano prigioni, campi di rieducazione. Che c'è di male nell'educazione?».

22 giugno 2010

Mariastella: più realista del re


Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, ha dichiarato a Il Giornale: "Ho intenzione di proporre il berlusconismo, una conquista del Paese che vogliamo difendere non solo all’interno del Pdl ma anche in un ambito culturale in cui vige l’egemonia della sinistra, che pensa che il centrodestra sia privo di identità culturale. Invece il berlusconismo ha cambiato la politica e il Paese, richiamandosi alla rappresentanza popolare, alla chiarezza dei programmi e del linguaggio, al legame con gli elettori. Non è qualcosa da mettere tra parentesi, come vorrebbe la sinistra che propaga la sua retorica del pessimismo. Ma proprio perché è un momento di crisi e di difficoltà non si può diffondere sfiducia ma è necessario puntare sull’ottimismo della volontà".

Come se il berlusconismo non fosse già insito nella costituzione materiale di questo paese. Solo docile accondiscendenza al Capo o voglia di ritorno ai tempi di autoritarismo littorio? Libro e moschetto, "berlusconista perfetto".

17 giugno 2010

Regioni, l’altra casta. Un consigliere calabrese guadagna più di Sarkozy e i siciliani si sono già pagati il funerale



da blitzquotidiano.it

Li hanno definiti “duri” (Gianni Letta), “necessari” (Giorgio Napolitano) addirittura “indispensabili” (Silvio Berlusconi). Ma i sacrifici, che tante lacrime e sangue stanno facendo versare ai comuni italiani, non toccano minimamente i consiglieri regionali. Così, in nome dell’autonomia, gli sprechi continuano impunemente: dai maxi-stipendi alle baby pensioni, passando per il contributo per pagare il proprio funerale, le Regioni continuano ad essere un carrozzone inefficiente e dalle tasche bucate.

Partiamo da un dato. Negli ultimi dieci anni le giunte regionali hanno raddoppiato le proprie spese rispetto alle altre istituzioni pubbliche. E non c’è da stupirsi se i consiglieri regionali della Calabria guadagnano quasi il doppio del presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy. Un eletto alla Regione Calabria, al netto di alcune indennità, prende di stipendio 11.316 euro, l’inquilino dell’Eliseo solo 6.714. Per non parlare del presidente del Brasile Ignacio Lula che non arriva ai tremila.

I consiglieri calabresi sono in ottima compagnia. I campani guadagnano 10.817 euro, i pugliesi 10.433, i lombardi 9.063, i piemontesi 8.963 e i veneti 8.004. E le cifre sono per difetto, dato che in questo conteggio non rientrano alcune voci come l’indennità di presenza o i rimborsi chilometrici. Una bella somma: più dei consiglieri belgi, tedeschi e svizzeri messi insieme. Nella regione belga delle Fiandre, infatti, lo stipendio medio di un consigliere è di 5.500 euro. Un eletto nell’area di Amburgo, in Germania, percepisce 2.280 euro. Quasi impensabile, poi, il caso della Svizzera, dove i membri del parlamento federale non vedono un soldo: lì la politica non è considerata un mestiere. Totale: 7.780 euro.

Ma i maxi-stipendi non sono gli unici regali che si concedono le Regioni, in barba alla crisi. I novanta consiglieri regionali della Sicilia, per assicurarsi dei degni funerali, si sono fatti un regalo per pagarsi l’ultimo viaggio: ben 5mila euro. Giusto per non farsi mancare niente, neanche nell’altro mondo.

Per non parlare poi dei cosiddetti baby-pensionati. Se i parlamentari devono aspettare almeno una legislatura piena per ottenere la pensione, per alcuni consiglieri regionali il vitalizio scatta solo dopo un anno. Non solo. Nel 2006 la Finanziaria stabilì un taglio del 10% delle indennità regionali ma la Campania impugnò la legge davanti alla Corte Costituzionale che le diede ragione in nome dell’autonomia. Così, la pensione dei parlamentari non può mai superare il 60% dell’indennità lorda, mentre quella dei consiglieri del Piemonte può arrivare all’80%, in Calabria all’84% e in Puglia addirittura al 90%. Alla faccia dei sacrifici.

16 giugno 2010

Pentiti e muori


dal blog beppegrillo.it

Il pentito Spatuzza non avrà il programma di protezione. La misura era stata chiesta da tre procure, Caltanissetta, Firenze e Palermo, che indagano sull'uccisione di Paolo Borsellino e della scorta e sulle stragi del '93. Ma se gli accusati da Spatuzza stanno al Governo come poteva essergli concessa la protezione? Il piduista Cicchitto (tessera 2232) ha così celebrato l'orazione funebre di Spatuzza: "Salutiamo positivamente, la decisione della Commissione centrale del Viminale per la definizione e l'applicazione delle misure speciali di protezione perché non si è lasciata influenzare da teoremi politici, ma ha valutato la qualità del pentito sulla base delle innumerevoli contraddizioni emerse dalle sue dichiarazioni. E' questa una disposizione corretta che inverte un atteggiamento durato molti anni di una gestione a dir poco superficiale dei programmi di protezione". Propongo di eliminare dal programma protezione anche il ministro Alfano, anche se non si è ancora pentito. Per una questione di equità.

15 giugno 2010

I liberali a due velocità



In un commento pubblicato su BlitzQuotidiano Giuseppe Giulietti mette in evidenza la incoerenza di certi politici del centrodestra che se da una parte si battono contro regimi, come quello cubano, che violano i diritti umani, dall’altra esaltano il leader libico Gheddafi che dei diritti umani certo non fa la propria bandiera. Proprio sullo stesso argomento abbiamo recuperato un interessante commento sul “The New Yorker” di Andrew Solomon dal titolo “Lettera dalla Libia: il cerchio del fuoco”.

Proprio leggendo il commento ci si rende conto di quanto l’incoerenza sia estesa. Non solo per quanto riguarda i diritti violati in Libia ma anche per il modello di Stato attuato dal colonnello Gheddafi. Silvio Berlusconi, infatti, si è sempre professato un oppositore del comunismo e del modello socialista di Stato. Ora, come possiamo vedere tutti anche alla tv, il Cavaliere è diventato grande amico del leader libico. Ma Salomon sul “The New Yorker” scriveva proprio che Gheddafi ha improntato la società libica su un “modello tardo-sovietico”. Proprio il modello contro cui Berlusconi si è sempre battuto.

«I ricavi petroliferi fanno della Libia uno dei paesi più ricchi in Africa, eppure la malnutrizione è tra i problemi di salute più diffusi. La versione di socialismo promulgato da Gheddafi è onorato, ma il paese è in preda ad una riforma del capitalismo. Un regime che ha sponsorizzato gruppi come l’I.R.A. ed è stato incolpato per l’esplosione del volo Pan Am 103 è riconosciuto un alleato nella guerra dell’America contro il terrorismo. Gheddafi consente di mantenere il movimento di riforma sotto controllo. Su alcuni punti, come per le libertà civili ed economiche, il ritmo del cambiamento è glaciale. In altri settori, come l’apertura del Paese al commercio internazionale, il cambiamento è avvenuto con una velocità sorprendente».

«Gheddafi nel 1977 scrisse il ‘Libro Verde’ in cui illustrava la Jamahiriya, ovvero la sua alternativa al capitalismo e al comunismo. Lo Stato gli ha permesso di consolidare il potere e avere protezione. Poi i ricavi del petrolio hanno reso possibili molti investimenti importanti nel settore dell’istruzione e delle infrastrutture… L’atmosfera in Libia è tardo-sovietica: divieti, segreti, sicurezza, anche se non generalmente letali. La sorveglianza è dilagante».

13 giugno 2010

Il vecchio che avanza

di Alessandro Robecchi - Il Manifesto

Come ogni anno allo scoccare dell’estate aspetto con ansia tre cose: le granite, i bagni al mare, e l’assemblea dei giovani di Confindustria. Specialmente questo evento mi mette di buonumore: i giovani imprenditori sono i figli dei vecchi imprenditori, il ripetersi dei cognomi è confortante: sentendo recitare dai figli le trite favolette padronali uno pensa: “ma ‘sta cazzata non l’aveva già detta il padre?”, e si rassicura sulla tenuta della famiglia come istituzione. L’altro giorno è toccato a Federica Guidi, figlia di Guidalberto Guidi (Ducati energia), che si fregia del titolo di giovane nonostante i quarant’anni suonati. Ha subito mandato un caro pensiero ai giovani, quelli veri, dicendo che hanno paura del futuro. E questo, naturalmente, perché “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”. Insomma: ci rammolliamo nel lusso con welfare e pensioni. Poi è passata allo sport nazionale: picconare la Costituzione. L’articolo 41, ovviamente, che con la libertà d’impresa non c’entra niente, ma la cui abolizione consentirebbe una più spensierata introduzione della schiavitù. E poi l’articolo 75, quello che vieta i referendum abrogativi in materia fiscale. Lei invece vorrebbe usare proprio i referendum contro le tasse. Lo dice in modo arguto: “consentire al popolo di decidere in che misura tassarsi”. E’ chiaro che non pensa al popolo (aliquota 23 per cento), ma ai suoi amici figli di imprenditori lì davanti (aliquota 43 per cento), che infatti si spellano le mani applaudendo. I giovani imprenditori sì che sono coraggiosi: dicono cose che i vecchi imprenditori pensano da sempre ma si vergognano di dire in pubblico. Telegiornali, potere politico, gazzette e commentatori gioiscono. Che grinta! Che coraggio! Mancavano solo le trombette stile Sudafrica. Chissà, forse tutti sperano di leggere un giorno su una scheda elettorale: “Vuoi abolire l’Irpref?”. Niente male per una giovane di mezza età, ma tranquilli: può ancora peggiorare.

12 giugno 2010

In quale parte del mondo si nasconde Osama Bin Laden?



Con un bambino in arrivo la necessità di rendere il mondo un posto più sicuro si fa impellente, così un modesto cittadino del West Virginia, decide di intraprendere quello che nessuna squadra operativa speciale è riuscita a fare. Mette all’opera la sua assoluta mancanza di esperienza, preparazione e competenza per dare la caccia all’uomo più pericoloso e ricercato del pianeta. L’epica ricerca ha inizio a New York e fa il giro del mondo. Morgan Spurlock attraversa Egitto, Marocco, Israele, Palestina, Arabia Saudita, Afghanistan e si avvicina più che mai al cuore di tenebra, le regioni tribali del Pakistan, in cerca del barbuto. Lungo il percorso interroga esperti ed imam, dà una mano all’esercito israeliano a disinnescare bombe, scopre la teoria del complotto che collega Al Qaeda al film Babe-Maialino Coraggioso e partecipa ai raid dei militari americani in Afghanistan. Nel frattempo sviluppa una comprensione più profonda delle radici dei conflitti che oggi turbano il mondo e si avvicina a Bin Laden stesso.

11 giugno 2010

L'arcitaliota

"E' l'Alberto Sordi della politica. Noi siamo un po' bugiardi, un po' mascalzoncelli, un po' gradassi. Per questo anche un po' simpatici. Lui ha messo insieme tutte queste cose e le ha elevate al cubo. E infatti ha avuto pure successo. E' uno della P2". (Carlo De Benedetti su Silvio Berlusconi).

08 giugno 2010

Le dame e il Cavaliere

Ci sono delle dame. C'è un cavaliere. Il tutto montato in un documentario sicuramente irrispettoso. E' un film che però non si può vedere, che nessuno si sente di distribuire. Una storia italiana che si chiama “Le dame e il cavaliere”, documentario realizzato dalla casa di produzione ‘Telemaco’, e che nel Belpaese vedranno in pochi, in qualche cineteca, perché nessuno vuole distribuirlo. Franco Fracassi, regista del film, alza il sipario su una doppia realtà: da una parte quella descritta nel film, dove il sesso e il potere si mescolano per portare avanti gli interessi del premier, dall’altra quella della libertà di informazione, in un paese in cui le verità scomode sono cancellate.

06 giugno 2010

Sgarbi contro Fuksas, le archistar e...

La sexy-crocerossina che ha colpito Silvio, sfilando alla Festa della Repubblica


Uno stile misto a quello di Edvige Fenech e della ex moglie Veronica Lario, un portamento e un incedere fieri. Si chiama Barbara Lamuraglia, madre di due figli, la crocerossina che ha fatto sobbalzare il Cavalier-Cialis. Buono a sapersi

05 giugno 2010

Tutti conoscono la vicenda Peppino Impastato, in pochi ricordano Peppe Valarioti



L’11 giugno 1980, trent’anni fa, muore in un agguato Giuseppe Valarioti, segretario del Pci di Rosarno. È il primo omicidio politico della nuova ‘ndrangheta, che entra nei partiti, nelle istituzioni e nella massoneria, conquista la Calabria e diventa la mafia più temibile d’Europa. Una storia di ieri, preludio dell’Italia di oggi. Una
vicenda giudiziaria piena di buchi e lunga 11 anni: nessun
colpevole. Giuseppe Valarioti viveva a Rosarno, in Calabria. Era un insegnante precario. Pensava che la politica e la cultura fossero strumenti per sconfiggere la ‘ndrangheta e offrire un’opportunità ai giovani del suo paese, della sua regione. È stato ucciso a trent’anni, la notte tra il 10 e l’11 giugno 1980, mentre usciva dalla cena con cui il Pci festeggiava la vittoria alle elezioni. Il suo è il primo omicidio politico in Calabria, quello che affossa il movimento anti-‘ndrangheta. È il battesimo di sangue della Santa, la nuova ‘ndrangheta, che cambia il destino della Calabria. Per sempre. Una vicenda giudiziaria lunga 11 anni: testimonianze coraggiose e ritrattazioni repentine, un superpentito che parla e non viene creduto, interi faldoni smarriti e un omicidio senza giustizia. Una storia dell’Italia di ieri e di oggi.

Il libro “Il caso Valarioti” (Round Robin Editrice), è scritto a quattro mani dai
giornalisti calabresi Danilo Chirico e Alessio Magro e ricostruisce la storia del
giovane politico e intellettuale calabrese a trent’anni esatti dal suo assassinio e
proprio nel momento in cui Rosarno – dopo la rivolta dei lavoratori migranti –
vive uno dei momenti più delicati.
«La storia di Peppe Valarioti è la storia di un’epoca, gli anni Settanta in Calabria,
dal sapore unico – scrivono gli autori nell’introduzione – i protagonisti sono i
disoccupati che si organizzano e chiedono un lavoro e quelli che fanno nascere il
movimento antimafia, i politici onesti e quelli corrotti, sono gli 'ndranghetisti che
fanno le guerre e quelli che diventano imprenditori, politici e massoni,
sono i morti ammazzati che non hanno giustizia. Una storia, tante storie di trent’anni
fa. Che contengono ogni ingrediente della Calabria, dell’Italia, di oggi».
"Il caso Valarioti", pubblicato dopo un lavoro di ricerca e approfondimento sugli anni 70 in Calabria durato ben cinque anni, è un’inchiesta giornalista che racconta per la prima volta la storia del politico calabrese, la sua vicenda personale, culturale e politica, che mette in luce le tante incongruenze delle indagini e dei processi e che punta l’indice contro le cosche rosarnesi. È anche uno strumento di
lavoro per ragionare attorno a una nuova identità meridionale: contiene infatti i
contributi originali dei giornalisti Giorgio Bocca, Enrico Fontana e Giuseppe Smorto
che servono ad affrontare il rapporto che esiste nel nostro Paese tra Nord e Sud,
politica e territorio, informazione e Sud, mafia e antimafia.

04 giugno 2010

La Nuova Armata Brancaleone

La Nuova Armata Brancaleone è un piccolo corto girato dagli studenti della Rossellini in cui si vedono soltanto dei titoli di coda a simboleggiare il cinema che non si farà più a causa dei tagli.

03 giugno 2010

Saviano purché francescano



MASSIMO GRAMELLINI PER LA STAMPA

Fino a quando lo affermavano politici prevenuti e intellettuali invidiosi, si poteva sorvolare. Ma ora che persino un punto di riferimento per le masse come il centravanti milanista (e napoletano) Borriello accusa Saviano di «aver lucrato sulla mia città», la questione si fa maledettamente seria. È giusto che uno scrittore possa acquisire fama e denaro parlando di camorra, come un centravanti facendo dei gol? Nel suo ultimo disco il musicista partenopeo Daniele Sepe - meno conosciuto di Borriello perché non si è mai fidanzato con Belen - rinfaccia a Saviano: «Hai fatto fortuna, ma chi ti paga è il capo dei burattinai», come se fosse la berlusconiana Mondadori ad aver arricchito il suo autore e non viceversa. Eppure basta bighellonare fra i blog che commentano le parole di Borriello per accorgersi che tanti la pensano come lui e paragonano Saviano a «uno che fa beneficenza e va a dirlo in giro».

In questo Paese cattolico e contadino, che pensa al denaro di continuo ma non smette di considerarlo lo sterco del demonio, è passato il principio che argomenti nobili come la legalità e la giustizia sociale vanno maneggiati in incognito e senza percepire compensi di mercato. Briatore può farsi docce di champagne su tutti gli yacht che vuole: è coerente col personaggio. Ma Santoro non deve guadagnare come Letterman né Saviano come Grisham, perché da chi sferza il malcostume gli italiani pretendono voto di povertà. A noi gli eroi piacciono scalzi e sfigati, per poterli compatire e sentirci più buoni. Così dopo votiamo i miliardari con maggiore serenità.

Daniele Sepe scrive un rap anti Saviano: "È intoccabile più del Papa"


Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato

Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano?
«Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori. «Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra?
«Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume.
«E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che...
«Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere?
«Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».
Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto?
«Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvage dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.
«A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte?
«Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia?
«Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano.
«Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione?
«Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

Antonio Fiore

01 giugno 2010

SUD

La Calabria è un luogo dell'anima. Sud ci racconta il Meridione d'Italia. Di un nuovo Medioevo, o meglio di un Medioevo infinito (Raul Montanari).

Racconto geografico-spirituale da sei fermate - finalista del premio "Subway" Milano 2010

di Andrea Paolo Massara

Era stata, giovedì, una giornata nuvolosa. Una di quelle giornate che in Calabria capitano forse due volte al mese. Oppure anche meno. Il grigio era stato uniforme in cielo e un vento caldo aveva giocato con le foglie, seccandole ancora di più.
Ora che si era fatta sera, tutti volevano dimenticare che razza di giornata era stata. Pegio era tutto preso dai suoi pensieri, ammirando le foglie che l’indomani avrebbe dovuto portare a scuola.
Pegio è il figlio di Concetta e Pasquale. Si chiama così perché è il terzo e anche l’ultimo della famiglia. In realtà si dovevano già fermare a due. Concetta al tempo aveva sentito dire dal prete che “in medio stat virtus” e lo aveva ripetuto per lungo tempo senza sapere bene cosa significasse a chi le chiedeva se intendevano averne altri. Bastava vederla imitare la parlata dei preti con addosso quei suoi vestiti del mercato per capire che il terzo proprio non se lo potevano permettere. Visto che però Dio gliene aveva voluto mandare un altro, Concetta e Pasquale avevano accettato in famiglia il dogma della Trinità, si erano fatti il segno della croce “Padre, Figlio e Spirito Santo”, e si erano trovati d’accordo nel dire che “dove mangiano due, mangiano tre”. Stavolta il prete aveva detto loro che “tre è il numero perfetto” e questo andavano ripetendo in giro.
Il problema a quel punto era stato un altro. Se il primo figlio lo avevano chiamato Antonio in onore del nonno paterno (pace alla buonanima) e la seconda aveva il nome di Maria per via della nonna materna, come avrebbero dovuto chiamare il terzo figlio, visto che dei nomi dei nonni due erano rimasti fuori, ma considerate le disastrose condizioni economiche il quartogenito non ci sarebbe mai stato?
Alla notizia che la nuora Concetta era in attesa, nonna Peppina era piombata in casa sua con la scusa di portarle il pane campanaro con le uova sode, come si usa a Pasqua. Dopo aver parlato di zucchine, pomodori e peperoni era arrivata a ciò che le premeva di più, cercando però di non darlo a vedere troppo, come se si trattasse di altri peperoni: “io credo che la creatura la dovete chiamare Peppina, o Peppino se è maschio. Dopo tutto tocca di nuovo a noi: l’ultima l’avete chiamata come tua mamma. Però fate come volete. Se non mi volete dare questa piccola gioia…”. Concetta, che quel giorno non si sentiva bene, non disse né sì e né no, ma agli occhi della suocera tutto era chiaro: chi tace acconsente.
Il giorno dopo Peppina incontrò la consuocera all’uscita della messa e in modo apparentemente casuale le fece una maligna confidenza: “Sapete, Maria, fra pochi mesi in paese ci sarà un’altra Peppina”. Ne era venuto fuori un caso diplomatico: nonna Maria fece visita a Concetta, le fece presente che rifiutarle il nome del marito sarebbe stato peccato “perché il nome Giosefatto viene da Gesù”. E sbatté la porta non prima di averle lasciato in dono la cosa peggiore che potesse capitare: un fazzoletto nuovo. I fazzoletti non si regalano mai! Sono nimicizie: servono per asciugarsi le lacrime, e a chi mai augureresti di piangere?
Quando Pasquale tornò a casa trovò Concetta appunto in lacrime, cercò di calmarla e dopo ore di discussioni trovarono la soluzione. Il terzo nato avrebbe dovuto chiamarsi in modo da contenere tutti e due i nomi dei nonni: se fosse stata femmina il suo nome sarebbe stato Gioppina (dalle iniziali di Giosefatto e le finali di Peppina), se invece avessero avuto un maschio si sarebbero unite le iniziali dei due nomi. Da qui il nome Pegio.
E così dopo Antonio (che è anche il nome del santo patrono del paese) e la femminuccia Maria (il nome della Madonna), dopo questi…era venuto il Pegio. Che era il “Pegio”. Nulla si può dire.

Il Pegio, che ormai aveva sette anni, stava ora fissando le foglie che aveva raccolto, del tutto ignaro delle numerose vicissitudini che lo avevano battezzato. Nel frattempo Pasquale era rincasato e si era seduto in cucina a chiacchierare con la moglie.
“Non mi ha ancora dato i soldi.”
“Me l’immaginavo.”
“Io invece no. Mo’ hanno preso pure i contributi dallo Stato.”
“E che cambia? Quelli sono per loro! Non hai visto l’ultima volta che ti ha pagato tre mesi fa? Quando te li ha dati ha detto sangue mio. Sono loro quelli che lavorano. Tu sei il servo. Purtroppo ogni tanto ti deve dare l’elemosina. Come se non sei tu quello che suda lì sotto…”
Pegio era entrato nella stanza. Voleva chiedere di che albero fosse quella foglia lunga e seghettata, ma si era messo zitto zitto ad ascoltare, fissando in modo più o meno discreto le mani di papà. Erano veramente grandi, con le dita grosse come banane e le unghie martoriate.
“Guardi le mani di papà? Non sono sporche. Lavorando sempre col cemento si fanno così…”
Pasquale gli stava mostrando le spaccature della pelle, che da anni erano un po’ ovunque.
“Tu devi studiare, così tra un poco di anni avrai sempre le mani pulite, bianche…”
“Come quelle dei preti!”, aggiunse la mamma sorridendo.
“Questo è il Sud. Quando sarai grande sarà diverso. Io lo faccio per te e per Antonio.”
Pegio staccò per un attimo lo sguardo e osservò di nuovo la foglia. Pensò che le mani di papà parevano secche come quella, che il colore non era poi tanto diverso. Pensò che il Sud forse era qualcosa come l’autunno, che secca foglie e mani allo stesso modo. Qualcosa come le giornate grigie, quelle che tutti vogliono scordare.

* * *

Della quercia son le fronde
che hanno foglie come onde,
sono tante, più di cento,
che ti cullano col vento.
Lunghe e soffici per i noci:
hanno foglie come pochi.
Mani hanno fichi e viti
con i palmi coloriti,
e al castagno state attenti
perché ha foglie con i denti!

Pegio a scuola fece un successone: non solo ne aveva raccolte più di tutti, ma era in grado di riconoscerne gli alberi di provenienza. La maestra lo premiò, come aveva promesso, regalandogli il libro La Storia delle storie. Questo anticipava le cose che avrebbe imparato negli anni successivi, raccontava di tutti i periodi storici.
Da quel giorno il libro diventò il suo passatempo preferito. Sebbene con qualche piccola difficoltà, Pegio riusciva a leggere di quel tempo in cui gli uomini disegnavano nelle caverne, di quando Roma era il centro del mondo e di come poi era stata bruciata da “Nerone lo stupidone”.
La parte che più l’aveva affascinato era la pagina del Medioevo, “che vuol dire ‘età di mezzo’”. Era un periodo buio però: gli uomini erano divisi in classi, i signori comandavano e quelli che lavoravano nella terra non valevano niente, e i preti e i monaci tenevano i libri solo per loro. Tutti avevano paura dell’anno 1000 perché credevano che sarebbe venuta la fine del mondo.
Pegio pensava ora che nonna invece aveva paura del 2000.
Chissà perché…ha tanti di quegli anni lei! Ora faceva la schizzinosa per l’anno prossimo? E poi gli zeri non valgono niente: mica fanno male. Sono altre le cose che non andavano bene. Certe volte nonna Peppina faceva le frittelle e ne mangiava così tante che poteva morire.
“Una – diceva – è per la buonanima del nonno, l’altra per mamma mia che non c’è più, e le ultime – come sempre – per le anime del purgatorio!”. Anche nonna Maria faceva così. E chissà quanto erano grasse queste anime del purgatorio, che qualche giorno potevano cadere giù! Mamma invece aveva paura che papà un giorno sarebbe caduto da qualche casa e li avrebbe lasciati soli. Perché già una volta era successo che era tornato zoppo e aveva detto: “Se ero assicurato….”.
“Ma perché papà non ti leghi a una corda così stai assicuro? “ gli aveva chiesto propositivo Pegio.
“No, io dico per i soldi! Quando ti fai male ti pagano.”
“Non ci credo. Ma tu sei as-sicuro, papà? Sei assicurato che è vero?”
“E’ vero, ma io non sono assicurato”
“E perché?”
“Perché nel Sud funziona così. Perché i signori sono troppo assicuri di sé e non possono assicurare noi insicuri, che non siamo manco assicuri che ci pagano il mese. E quelli che si devono assicurare che noi siamo assicurati, lo stipendio ce l’hanno sicuro e di noi insicuri non gliene frega una minchia”.
“Allora io da grande faccio il sicuro”.
“Questo è sicuro!” aveva detto la madre, con tono minaccioso e sicuro.

* * *

Si mise i sandali ai piedi tanto veloce da farsi male. Davanti casa Luciano e Vittoria lo aspettavano da un po’. L’avevano deciso a scuola nel cortile che quel pomeriggio sarebbero andati a Terra Margia ad esplorare.
“Ma tu glielo hai detto dove andiamo?”
“No. Mamma a quest’ora guarda Bùtiful.”
Disse Vittoria sorridente, con l’aria di una che la sapeva lunga.
Dove finivano le case, da una parte del paese c’era il cimitero delle persone, dall’altra quello delle macchine. Proprio dietro i relitti delle automobili, dopo la 128 senza più le porte, cominciava un sentiero. Lo avevano percorso tante altre volte, ma mai fino in fondo perché si faceva sempre troppo tardi e arrivava l’ora di cena. Quel giorno ci erano andati subito dopo pranzo con l’intenzione di vedere finalmente dove portava.
I sandali si curvavano seguendo le irregolarità del terreno, le pietre, le buche, e a volte sull’erba sembravano rilassarsi per un attimo. Sulle loro teste si alternavano distese di cielo senza nuvole e fogliame di querce e tanti altri alberi di cui non conoscevano il nome.
“Fino a qua non ci siamo mai arrivati.”
“Non è vero, io quella casa vecchia me la ricordo!”
“Ah sì? E il pulmino pure?”
Vicino ad un fosso, addossato ad un grande albero giaceva, scolorito e arrugginito, un veicolo d’altri tempi. Chissà un tempo chi portava e dove andava quella macchina con tanti posti, ora occupati solo da ragni e gechi. Per Pegio e Luciano non c’erano dubbi.
“É un pulmino della scuola di una volta!”
“E mica una volta andavano a scuola!”
“Come no, Vittoria! Papà ha detto che ha fatto fino alla terza elementare.”
“Ah ah ah…allora tuo fratello Antonio che fa la quarta sa più cose di papà mio?!”
Concluse curiosa Vittoria rivolgendosi a Pegio.
Pegio vide Luciano seduto su un vecchio sedile iniziare a piangere e asciugarsi le lacrime, ma le gocce erano tante, e anziché fermarsi arrivavano fino alle labbra. Luciano ne sentì il sapore salato quando aprì bocca singhiozzando.
“Papà ha detto che nel Sud non cambia mai un cavolo e i bambini poi fanno come il loro papà - Vittoria e Pegio stavano ad ascoltare - E io non voglio fermarmi alla terza, non voglio fare i pomodori, voglio imparare le stelle!”
Un soffio forte di vento asciugò le lacrime, ma non gli umori.
“E io non voglio guardare Bùtiful!”
Si lamentò sconsolata Vittoria, mentre Pegio pensava al suo papà muratore.

Un grido risuonò nell’aria.
“PEEEGIOOO!”
Era Antonio. Anche questa volta non sarebbero arrivati alla fine del sentiero.
“Ve l’ho detto che ci ha sentiti a scuola quando parlavamo!”
“PEEEEEEEGIOO!”
Antonio, che da più su li aveva visti, si precipitò sotto il grande albero, accanto al pulmino. Per la grande corsa sollevò tutto intorno un polverone. Dicono che a Terra Margia le piante non si possono piantare perché la terra è come sabbia e non cresce niente. Ora quella polvere sterile stava appoggiandosi sulle loro magliette, sulle facce sudate, si impastava con le lacrime di Luciano.
Antonio prese Pegio per un braccio.
“Devi venire subito in paese, papà è caduto da una casa.”
Corsero tutti insieme nella Terra Margia, con i sandali che sembravano rompersi, i capelli grondanti di sudore, le facce stanche e gli occhi vivi. Senza fermarsi. Un cane nero si mise a inseguirli come un pazzo. Per quello e per altre paure corsero ancora di più. Di più che sembrava che in alcuni istanti si alzassero da terra per saltare i fossi e guardare avanti.
Arrivati alla strada asfaltata rallentarono il passo per la stanchezza. Si guardarono l’un l’altro senza dir niente. Giunsero a casa di Pegio e ormai si era fatta sera.
Mamma Concetta era seduta sulle scale dell’entrata.
“Dov’eri?”
“A Terra Margia.”
Vittoria e Luciano si allontanarono lentamente come piccoli colpevoli e andarono a casa loro.

Quella volta papà era caduto davvero dall’impalcatura. I dottori avevano detto che non era nulla di irrimediabile, una frattura del femore. E per ora se lo tenevano in ospedale. Certo, loro avevano il pane assicurato, lo stipendio assicurato, il lavoro assicurato: una vita “as-sicura”. La famiglia di Pegio invece avrebbe passato un brutto inverno quell’anno.

Mentre i tre salivano le scale, i pensieri invadevano l’aria come Terra Margia e il sole non c’era più.
Papà lavorava in nero, come un servo. I “signori” lo pagavano solo ogni tanto, la nonna ha aveva paura dell’anno 2000 e Luciano e Vittoria non avrebbero potuto studiare perché solo i preti devono avere le mani come nuove. Tutto come nel libro, tutto come nel Medioevo. E visto che la maestra diceva che è era bene imparare la storia perché si ripeteva nel tempo, una domanda limpida, netta e disarmante tagliò l’aria della cucina, mentre Concetta stava apparecchiando la tavola.
“Mamma, ma quando finisce il Sud?”
“Quando avrai le mani pulite.”
Disse Concetta a mezza voce, incerta del futuro, persa fra i pensieri e occupata a scolare la pasta.

Starsene con le mani in mano, alzare le mani, lavarsene le mani, baciamo le mani. Quante cose cattive venivano dalle mani.
Con le mani pulite invece si cucinano le cose buone. Con le mani pulite si fanno le carezze ai neonati. E se tutti un giorno avessero avuto le mani pulite, se tutti si fossero stretti le mani, se avessero battuto le mani, Pegio pensò che forse, un giorno, magari di colpo, il Sud sarebbe finito.