01 giugno 2010

SUD

La Calabria è un luogo dell'anima. Sud ci racconta il Meridione d'Italia. Di un nuovo Medioevo, o meglio di un Medioevo infinito (Raul Montanari).

Racconto geografico-spirituale da sei fermate - finalista del premio "Subway" Milano 2010

di Andrea Paolo Massara

Era stata, giovedì, una giornata nuvolosa. Una di quelle giornate che in Calabria capitano forse due volte al mese. Oppure anche meno. Il grigio era stato uniforme in cielo e un vento caldo aveva giocato con le foglie, seccandole ancora di più.
Ora che si era fatta sera, tutti volevano dimenticare che razza di giornata era stata. Pegio era tutto preso dai suoi pensieri, ammirando le foglie che l’indomani avrebbe dovuto portare a scuola.
Pegio è il figlio di Concetta e Pasquale. Si chiama così perché è il terzo e anche l’ultimo della famiglia. In realtà si dovevano già fermare a due. Concetta al tempo aveva sentito dire dal prete che “in medio stat virtus” e lo aveva ripetuto per lungo tempo senza sapere bene cosa significasse a chi le chiedeva se intendevano averne altri. Bastava vederla imitare la parlata dei preti con addosso quei suoi vestiti del mercato per capire che il terzo proprio non se lo potevano permettere. Visto che però Dio gliene aveva voluto mandare un altro, Concetta e Pasquale avevano accettato in famiglia il dogma della Trinità, si erano fatti il segno della croce “Padre, Figlio e Spirito Santo”, e si erano trovati d’accordo nel dire che “dove mangiano due, mangiano tre”. Stavolta il prete aveva detto loro che “tre è il numero perfetto” e questo andavano ripetendo in giro.
Il problema a quel punto era stato un altro. Se il primo figlio lo avevano chiamato Antonio in onore del nonno paterno (pace alla buonanima) e la seconda aveva il nome di Maria per via della nonna materna, come avrebbero dovuto chiamare il terzo figlio, visto che dei nomi dei nonni due erano rimasti fuori, ma considerate le disastrose condizioni economiche il quartogenito non ci sarebbe mai stato?
Alla notizia che la nuora Concetta era in attesa, nonna Peppina era piombata in casa sua con la scusa di portarle il pane campanaro con le uova sode, come si usa a Pasqua. Dopo aver parlato di zucchine, pomodori e peperoni era arrivata a ciò che le premeva di più, cercando però di non darlo a vedere troppo, come se si trattasse di altri peperoni: “io credo che la creatura la dovete chiamare Peppina, o Peppino se è maschio. Dopo tutto tocca di nuovo a noi: l’ultima l’avete chiamata come tua mamma. Però fate come volete. Se non mi volete dare questa piccola gioia…”. Concetta, che quel giorno non si sentiva bene, non disse né sì e né no, ma agli occhi della suocera tutto era chiaro: chi tace acconsente.
Il giorno dopo Peppina incontrò la consuocera all’uscita della messa e in modo apparentemente casuale le fece una maligna confidenza: “Sapete, Maria, fra pochi mesi in paese ci sarà un’altra Peppina”. Ne era venuto fuori un caso diplomatico: nonna Maria fece visita a Concetta, le fece presente che rifiutarle il nome del marito sarebbe stato peccato “perché il nome Giosefatto viene da Gesù”. E sbatté la porta non prima di averle lasciato in dono la cosa peggiore che potesse capitare: un fazzoletto nuovo. I fazzoletti non si regalano mai! Sono nimicizie: servono per asciugarsi le lacrime, e a chi mai augureresti di piangere?
Quando Pasquale tornò a casa trovò Concetta appunto in lacrime, cercò di calmarla e dopo ore di discussioni trovarono la soluzione. Il terzo nato avrebbe dovuto chiamarsi in modo da contenere tutti e due i nomi dei nonni: se fosse stata femmina il suo nome sarebbe stato Gioppina (dalle iniziali di Giosefatto e le finali di Peppina), se invece avessero avuto un maschio si sarebbero unite le iniziali dei due nomi. Da qui il nome Pegio.
E così dopo Antonio (che è anche il nome del santo patrono del paese) e la femminuccia Maria (il nome della Madonna), dopo questi…era venuto il Pegio. Che era il “Pegio”. Nulla si può dire.

Il Pegio, che ormai aveva sette anni, stava ora fissando le foglie che aveva raccolto, del tutto ignaro delle numerose vicissitudini che lo avevano battezzato. Nel frattempo Pasquale era rincasato e si era seduto in cucina a chiacchierare con la moglie.
“Non mi ha ancora dato i soldi.”
“Me l’immaginavo.”
“Io invece no. Mo’ hanno preso pure i contributi dallo Stato.”
“E che cambia? Quelli sono per loro! Non hai visto l’ultima volta che ti ha pagato tre mesi fa? Quando te li ha dati ha detto sangue mio. Sono loro quelli che lavorano. Tu sei il servo. Purtroppo ogni tanto ti deve dare l’elemosina. Come se non sei tu quello che suda lì sotto…”
Pegio era entrato nella stanza. Voleva chiedere di che albero fosse quella foglia lunga e seghettata, ma si era messo zitto zitto ad ascoltare, fissando in modo più o meno discreto le mani di papà. Erano veramente grandi, con le dita grosse come banane e le unghie martoriate.
“Guardi le mani di papà? Non sono sporche. Lavorando sempre col cemento si fanno così…”
Pasquale gli stava mostrando le spaccature della pelle, che da anni erano un po’ ovunque.
“Tu devi studiare, così tra un poco di anni avrai sempre le mani pulite, bianche…”
“Come quelle dei preti!”, aggiunse la mamma sorridendo.
“Questo è il Sud. Quando sarai grande sarà diverso. Io lo faccio per te e per Antonio.”
Pegio staccò per un attimo lo sguardo e osservò di nuovo la foglia. Pensò che le mani di papà parevano secche come quella, che il colore non era poi tanto diverso. Pensò che il Sud forse era qualcosa come l’autunno, che secca foglie e mani allo stesso modo. Qualcosa come le giornate grigie, quelle che tutti vogliono scordare.

* * *

Della quercia son le fronde
che hanno foglie come onde,
sono tante, più di cento,
che ti cullano col vento.
Lunghe e soffici per i noci:
hanno foglie come pochi.
Mani hanno fichi e viti
con i palmi coloriti,
e al castagno state attenti
perché ha foglie con i denti!

Pegio a scuola fece un successone: non solo ne aveva raccolte più di tutti, ma era in grado di riconoscerne gli alberi di provenienza. La maestra lo premiò, come aveva promesso, regalandogli il libro La Storia delle storie. Questo anticipava le cose che avrebbe imparato negli anni successivi, raccontava di tutti i periodi storici.
Da quel giorno il libro diventò il suo passatempo preferito. Sebbene con qualche piccola difficoltà, Pegio riusciva a leggere di quel tempo in cui gli uomini disegnavano nelle caverne, di quando Roma era il centro del mondo e di come poi era stata bruciata da “Nerone lo stupidone”.
La parte che più l’aveva affascinato era la pagina del Medioevo, “che vuol dire ‘età di mezzo’”. Era un periodo buio però: gli uomini erano divisi in classi, i signori comandavano e quelli che lavoravano nella terra non valevano niente, e i preti e i monaci tenevano i libri solo per loro. Tutti avevano paura dell’anno 1000 perché credevano che sarebbe venuta la fine del mondo.
Pegio pensava ora che nonna invece aveva paura del 2000.
Chissà perché…ha tanti di quegli anni lei! Ora faceva la schizzinosa per l’anno prossimo? E poi gli zeri non valgono niente: mica fanno male. Sono altre le cose che non andavano bene. Certe volte nonna Peppina faceva le frittelle e ne mangiava così tante che poteva morire.
“Una – diceva – è per la buonanima del nonno, l’altra per mamma mia che non c’è più, e le ultime – come sempre – per le anime del purgatorio!”. Anche nonna Maria faceva così. E chissà quanto erano grasse queste anime del purgatorio, che qualche giorno potevano cadere giù! Mamma invece aveva paura che papà un giorno sarebbe caduto da qualche casa e li avrebbe lasciati soli. Perché già una volta era successo che era tornato zoppo e aveva detto: “Se ero assicurato….”.
“Ma perché papà non ti leghi a una corda così stai assicuro? “ gli aveva chiesto propositivo Pegio.
“No, io dico per i soldi! Quando ti fai male ti pagano.”
“Non ci credo. Ma tu sei as-sicuro, papà? Sei assicurato che è vero?”
“E’ vero, ma io non sono assicurato”
“E perché?”
“Perché nel Sud funziona così. Perché i signori sono troppo assicuri di sé e non possono assicurare noi insicuri, che non siamo manco assicuri che ci pagano il mese. E quelli che si devono assicurare che noi siamo assicurati, lo stipendio ce l’hanno sicuro e di noi insicuri non gliene frega una minchia”.
“Allora io da grande faccio il sicuro”.
“Questo è sicuro!” aveva detto la madre, con tono minaccioso e sicuro.

* * *

Si mise i sandali ai piedi tanto veloce da farsi male. Davanti casa Luciano e Vittoria lo aspettavano da un po’. L’avevano deciso a scuola nel cortile che quel pomeriggio sarebbero andati a Terra Margia ad esplorare.
“Ma tu glielo hai detto dove andiamo?”
“No. Mamma a quest’ora guarda Bùtiful.”
Disse Vittoria sorridente, con l’aria di una che la sapeva lunga.
Dove finivano le case, da una parte del paese c’era il cimitero delle persone, dall’altra quello delle macchine. Proprio dietro i relitti delle automobili, dopo la 128 senza più le porte, cominciava un sentiero. Lo avevano percorso tante altre volte, ma mai fino in fondo perché si faceva sempre troppo tardi e arrivava l’ora di cena. Quel giorno ci erano andati subito dopo pranzo con l’intenzione di vedere finalmente dove portava.
I sandali si curvavano seguendo le irregolarità del terreno, le pietre, le buche, e a volte sull’erba sembravano rilassarsi per un attimo. Sulle loro teste si alternavano distese di cielo senza nuvole e fogliame di querce e tanti altri alberi di cui non conoscevano il nome.
“Fino a qua non ci siamo mai arrivati.”
“Non è vero, io quella casa vecchia me la ricordo!”
“Ah sì? E il pulmino pure?”
Vicino ad un fosso, addossato ad un grande albero giaceva, scolorito e arrugginito, un veicolo d’altri tempi. Chissà un tempo chi portava e dove andava quella macchina con tanti posti, ora occupati solo da ragni e gechi. Per Pegio e Luciano non c’erano dubbi.
“É un pulmino della scuola di una volta!”
“E mica una volta andavano a scuola!”
“Come no, Vittoria! Papà ha detto che ha fatto fino alla terza elementare.”
“Ah ah ah…allora tuo fratello Antonio che fa la quarta sa più cose di papà mio?!”
Concluse curiosa Vittoria rivolgendosi a Pegio.
Pegio vide Luciano seduto su un vecchio sedile iniziare a piangere e asciugarsi le lacrime, ma le gocce erano tante, e anziché fermarsi arrivavano fino alle labbra. Luciano ne sentì il sapore salato quando aprì bocca singhiozzando.
“Papà ha detto che nel Sud non cambia mai un cavolo e i bambini poi fanno come il loro papà - Vittoria e Pegio stavano ad ascoltare - E io non voglio fermarmi alla terza, non voglio fare i pomodori, voglio imparare le stelle!”
Un soffio forte di vento asciugò le lacrime, ma non gli umori.
“E io non voglio guardare Bùtiful!”
Si lamentò sconsolata Vittoria, mentre Pegio pensava al suo papà muratore.

Un grido risuonò nell’aria.
“PEEEGIOOO!”
Era Antonio. Anche questa volta non sarebbero arrivati alla fine del sentiero.
“Ve l’ho detto che ci ha sentiti a scuola quando parlavamo!”
“PEEEEEEEGIOO!”
Antonio, che da più su li aveva visti, si precipitò sotto il grande albero, accanto al pulmino. Per la grande corsa sollevò tutto intorno un polverone. Dicono che a Terra Margia le piante non si possono piantare perché la terra è come sabbia e non cresce niente. Ora quella polvere sterile stava appoggiandosi sulle loro magliette, sulle facce sudate, si impastava con le lacrime di Luciano.
Antonio prese Pegio per un braccio.
“Devi venire subito in paese, papà è caduto da una casa.”
Corsero tutti insieme nella Terra Margia, con i sandali che sembravano rompersi, i capelli grondanti di sudore, le facce stanche e gli occhi vivi. Senza fermarsi. Un cane nero si mise a inseguirli come un pazzo. Per quello e per altre paure corsero ancora di più. Di più che sembrava che in alcuni istanti si alzassero da terra per saltare i fossi e guardare avanti.
Arrivati alla strada asfaltata rallentarono il passo per la stanchezza. Si guardarono l’un l’altro senza dir niente. Giunsero a casa di Pegio e ormai si era fatta sera.
Mamma Concetta era seduta sulle scale dell’entrata.
“Dov’eri?”
“A Terra Margia.”
Vittoria e Luciano si allontanarono lentamente come piccoli colpevoli e andarono a casa loro.

Quella volta papà era caduto davvero dall’impalcatura. I dottori avevano detto che non era nulla di irrimediabile, una frattura del femore. E per ora se lo tenevano in ospedale. Certo, loro avevano il pane assicurato, lo stipendio assicurato, il lavoro assicurato: una vita “as-sicura”. La famiglia di Pegio invece avrebbe passato un brutto inverno quell’anno.

Mentre i tre salivano le scale, i pensieri invadevano l’aria come Terra Margia e il sole non c’era più.
Papà lavorava in nero, come un servo. I “signori” lo pagavano solo ogni tanto, la nonna ha aveva paura dell’anno 2000 e Luciano e Vittoria non avrebbero potuto studiare perché solo i preti devono avere le mani come nuove. Tutto come nel libro, tutto come nel Medioevo. E visto che la maestra diceva che è era bene imparare la storia perché si ripeteva nel tempo, una domanda limpida, netta e disarmante tagliò l’aria della cucina, mentre Concetta stava apparecchiando la tavola.
“Mamma, ma quando finisce il Sud?”
“Quando avrai le mani pulite.”
Disse Concetta a mezza voce, incerta del futuro, persa fra i pensieri e occupata a scolare la pasta.

Starsene con le mani in mano, alzare le mani, lavarsene le mani, baciamo le mani. Quante cose cattive venivano dalle mani.
Con le mani pulite invece si cucinano le cose buone. Con le mani pulite si fanno le carezze ai neonati. E se tutti un giorno avessero avuto le mani pulite, se tutti si fossero stretti le mani, se avessero battuto le mani, Pegio pensò che forse, un giorno, magari di colpo, il Sud sarebbe finito.

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