26 novembre 2010

Ancora su don Giacomo Panizza - "Confondevo il pizzo con i modi di dire dialettali"

di Elisabetta Ranieri - nuovasocieta.it

Mi chiede subito se deve preparare un elenco, parla con tono sereno e pacato della ‘ndrangheta e di come lui e suoi ragazzi disabili si sono opposti alla mentalità di paura ed omissione, ride pensando ai suoi primi anni in Calabria in cui lui, il prete nordico, confondeva la parola ‘pizzo’ o le minacce di morte con modi di dire dialettali.  E lui, Don Giacomo Panizza, fondatore del progetto sud che lo ha visto spostarsi nel 1976 da Brescia a Lamezia terme, ha fatto quello che tanti non sono riusciti a fare. Ha aperto la sua comunità di aiuto e sostegno per i ragazzi disabili in uno dei palazzi sequestrati alla famiglia del boss Antonio Torcasio, a soli 6 metri di distanza dalla casa in cui vivono gli stessi Torcasio. E’ sotto scorta da anni, ha ricevuto numerose minacce, manomissioni dei freni delle auto della comunità, è stato etichettato come prete del demonio…ma è andato avanti insieme ai suoi ragazzi ed oggi racconta a Nuovasocietà la sua ‘emigrazione al rovescio’ che come lui stesso ha dichiarato, durante la trasmissione Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano, gli ha fatto conoscere il limbo, l’inferno, il purgatorio ed il paradiso.

Don Giacomo, la prima domanda che mi viene spontaneo farle è perché? Perché un progetto così arduo al sud, in una terra così difficile da capire per chi non ce l’ha nel dna..

Il perché di questa storia è un perché semplice...a Lourdes c’erano i disabili che venivano dalla Calabria e che quando incontravano quelli della Lombardia gli dicevano: ‘ma noi giù abbiamo niente’ ..e chiedevano di essere ricoverati al nord. In Calabria all’epoca, fine anni ’70 più o meno, c’era quell’operazione un po’ difficile che si chiama, che si chiamava,  istituto Serra D’Aiello - perché l’hanno chiuso poi con uno sgombero dalle forze dell’ordine -  e c’erano altri istituti ma di ricoveri totali ecco, quindi loro chiedevano di essere ricoverati nelle nostre strutture, nelle nostre comunità e invece di ricoverarli mi sono spostato io giù.

L’impatto qual’é stato?

All’inizio non collegavo quello che vedevo o quello che mi dicevano, anche il fatto di chiedermi il pizzo ..io non capivo neanche la parola pizzo, figuriamoci..stiamo parlando del 1976 perciò di tanti anni fa… io stavo con i disabili e capivo solo il loro di linguaggio perciò gli altri linguaggi li ho capiti dopo, prima ho capito il bisogno di queste persone. Quando sono sceso pensavo di aiutare persone in difficoltà, come a Brescia insomma…invece poi mi sono scontrato con le difficoltà legate alla ‘ndrangheta, legate alla mancanza di servizi, legate anche ad una mentalità chiusa..per esempio mentre a Brescia vedevo le persone in carrozzina andare a lavorare qui invece vedevo che anche i genitori stessi dei disabili pensavano che fossero incapaci del tutto, perché le uniche risposte erano i ricoveri, un ricovero grande a Catanzaro ed un altro a Serra D’Aiello (in provincia di Cosenza)..si diceva che chi era handicappato andava ricoverato. Allora ho iniziato a lottare contro questo tipo di mentalità, ma più che a parole, dimostrando che era possibile farli lavorare. La parola lotte però forse è sbagliata..sono stati esperimenti ecco. Se ad esempio mi volevano regalare il proiettore per fare i film qui in comunità, io dicevo ‘no grazie non lo voglio il proiettore, perché io li porto a veder il film dove andate voi, li porto alla sala cinematografica dove andate voi’..e su queste cose c’era chi metteva il broncio, chi mi prendeva per un marziano che non accetta i regali. Invece l’idea poi ha funzionato perché ad esempio qua c’è stata la prima sala cinematografica calabrese che ha abbattuto le barriere architettoniche prima che uscisse la legge insomma perché a furia di andare al cinema con le carrozzine han dovuto fare lo scivolo al posto dei gradini.

Il muro della mentalità ed il muro della ‘ndrangheta …la paura della gente.. Lei è uno dei pochi che per primo ha avuto il coraggio di guardare in faccia certe persone, tra questi ad esempio, il boss Antonio Torcasio…


Io non capivo quando mi chiedevano i soldi per gli aiuti in carcere però dopo ho capito subito che le conseguenze erano molte, come le ruote della macchina, per dirne una, tagliate..il punto è  che ho visto che c’era una paura esagerata insomma, quando questi comunque non sono tantissimi …Non so se si può parlare di coraggio, la verità è che io non capivo come mai se io lavoro questi mi chiedevano soldi perché come si fa prendere i soldi  di un lavoratore onesto,  cioè non riuscivo a concepirla questa cosa, perciò è stata più un’idea di giustizia che di coraggio, per fare la cosa giusta. Per fortuna non sono mai stato solo in questa battaglia perché io vivo con un gruppo di gente in carrozzina che comunque pian piano ha cambiato mentalità, ha capito che le idee che gli proponevo stavano insieme insomma..e ad esempio il fatto di utilizzare quella casa l’abbiamo deciso insieme, certo il prefetto ha chiamato me però io l’ho deciso poi insieme a loro. I segnali di minaccia, certo, sono stati tanti ed io, ripeto, all’inizio non capivo molte cose della Calabria, come ad esempio le minacce di morte, non le capivo finche poi i poliziotti mi han detto che non erano uno scherzo ..’Don Giacomo la traduzione in italiano di quello che le stanno dicendo è che fanno saltare lei e tutta la casa …’  quando io pensavo che fosse un modo di dire ecco.  Io ho un po’ di paura, ma che ci posso fare, la vita è questa qui..

Si aspettava mai di vivere sotto scorta, sotto protezione, di arrivare a tal punto…?

No questo non lo pensavo mai, però me l’hanno imposta. Fatti i processi, avendo anche riconosciuto l’accusa ect, mi hanno sottoposto ad un programma di protezione..

Oggi come oggi rifarebbe tutto quanto? Forse ripensando all’inizio ha agito anche con un po’ di incoscienza non conoscendo la realtà…


Non lo so, certamente prima non capivo in pieno quello che facevo, però oggi vedo che è andata per il verso giusto insomma, magari ci penserei di più ma credo che poi agirei lo stesso. L’incoscienza c’è stata di sicuro, però era un’incoscienza legata al non capire al 100% le cose, ma la direzione la capivo insomma..

Che cosa manca ancora in Calabria?

Un po’ di cose, tra cui il fatto di mettersi a scommettere sulle piccole cose. Non so, adesso si parla del ponte di Messina ect ecco, queste sono cose che per me distraggono perché non ci si accorge di avere l’autostrada che non c’è o le strade di montagna che crollano con la pioggia. Io credo sia più importante avere in mente le piccole cose della vita quotidiana che vanno nel senso giusto, che diventano le cose nostre davvero non le cose nostre alla maniera della ‘ndrangheta perché ‘questi qui’ intendono le cose  nostre di una famiglia, di un clan…mentre per noi ‘nostro’ vuol dire di tutti.

Saviano ha definito i suoi ragazzi diversamente abili perchè dotati della ‘diversa abilità’ del coraggio e della voglia di ribellarsi…
Loro hanno capito tutte queste cose e vanno avanti. Ho una ragazzina che è in carrozzina, quasi al livello di Welby, cioè con la macchina respiratoria ect…che da qui coordina tutte le persone del nostro giro che lottano per la legalità, insegnanti, gruppi di volontariato, coppie di fidanzati o famiglie che portano avanti le cose…Qua è accaduto che ‘gli sgangherati’ hanno alzato la testa e non la gente forte. Chi è forte secondo me deve tenere presente che è normale essere forti, è normale essere se stessi, è normale essere liberi, è normale aiutare chi ha bisogno ed è normale lottare per la giustizia perché si è più felici vivendo così e non vivendo sotto dipendenza ..

Se dovesse allungare la famosa lista delle cose del sud che le piacciono letta da Fazio e Saviano…cosa scriverebbe?

Beh ci sono tante cose belle da aggiungere..certamente mi piace il fatto di avere la gente che cerca di lavorare davvero anche quando viene disturbata, mi piace il fatto delle persone che stanno insieme liberamente invece che venire costrette per forza ad appartenere a qualche famiglia, a qualche clan, sembra che scappano via invece scappano da queste appartenenze che li catturano…mi è piaciuto vedere le proposte per sapere le verità su quelle navi che spariscono, sulle navi inabissate qua davanti al tirreno di cui non si sa cosa c’è dentro ed il governo certo non ci dice queste cose qui ..mi piacciono quelli che partono ed anche quelli che rimangono..secondo me i giovani che partono fan bene a partire ricordando la Calabria e i giovani che rimangono fan bene a rimanere sapendo che devono stare collegati con gli altri che partono, perché la Calabria è comunque un mondo di via vai e credo che tutti qui non ci stiamo..l’importante è  avere la serenità di dire che si parte o che si rimane.

23 novembre 2010

L'insostenibile monnezza della demagogia



Era il 2008. A due anni e mezzo di distanza tremila tonnellate di monnezza invadono Napoli. Dopo le promesse e i proclami il problema rimane: non c'è nessun uomo della Provvidenza. I dieci giorni del "repulisti" sono trascorsi da mesi. Ma naturalmente la colpa è del governo Prodi, di Bassolino, della cattiva gestione e della mancata partenza della raccolta differenziata dei rifiuti, del nemico immaginario. La soluzione? La vecchia logica della militarizzazione, che funziona per dissuadere sullo stato delle cose e lancia manciate di vacuo fumo negli occhi dei più distratti. Carl Schimitt insegna.

19 novembre 2010

Ora la Lega paga il colpo

Nando Dalla Chiesa

Ma davvero pensavano che nessuno gli avrebbe mai chiesto il conto? Sul serio immaginavano di governare per vent'anni la Lombardia senza dovere spiegare come mai i clan calabresi hanno potuto metterci tende e case impunemente, facendosi beffe dei riti celtici e delle adunate di Pontida? Se il centrosinistra ha dovuto rispondere (giustamente) della spazzatura a Napoli, o del degrado delle periferie romane, in base a quale principio chi ha governato regione, province e comuni lombardi nella Seconda Repubblica non dovrebbe rispondere della stupefacente avanzata della 'ndrangheta nel cuore della pianura padana? La questione, cristallina, è ormai sul tappeto. Ed è ridicolo pensare di cavarsela gettando la colpa di tutto sulle "leggi romane", ossia sul soggiorno obbligato. Il quale ha avuto certo un ruolo nel favorire i primi insediamenti mafiosi al Nord. Ma ormai non esiste da più di vent'anni.

Da più di vent'anni, cioè, Cosa Nostra e la 'ndrangheta arrivano al Nord, a grappoli di boss e di affiliati, unicamente perché ci fanno buoni affari, trovano una certa e incredibile ospitalità ambientale e perché, soprattutto, le istituzioni politiche continuano a negarne l'esistenza. Che è una polizza d'oro, visto che se il nemico non esiste non gli si fa la guerra. Meno male che la lotta ai clan la fanno lo stesso le forze dell'ordine e la magistratura, le quali da tempo con migliaia (migliaia...) di arresti e con decine di processi gridano inutilmente alla nazione quello che accade nelle sue aree più ricche. E che si impegnano lì come in Sicilia, in Calabria e in Campania (a proposito, complimenti per la cattura di Iovine), dove però nessuno si sogna più di dire che mafia, camorra e 'ndrangheta non ci siano. In quelle regioni un tempo la Dc, non solo lei ma soprattutto lei, ha allevato un sistema in cui i clan sono straripati fino a farla da padroni. Oggi la Lega e i suoi alleati, non solo loro ma soprattutto loro, li stanno facendo straripare in Lombardia. Grazie dunque a chi arresta i boss, a Casal di Principe come a Buccinasco. Ma paghi il conto chi li fa accomodare nell'edilizia, nei lavori pubblici, nei piani regolatori, nel commercio, in politica, senza dire una parola. Al Sud come in "Padania".

17 novembre 2010

La cantantessa dell'harem



Credo che il berlusconismo continuerà anche dopo Berlusconi. Il berlusconismo è il narcisismo di massa, la svalutazione dei valori più tradizionali della nostra vita collettiva, è il degrado del costume, l'uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione e della politica. Come fenomeno culturale, come portato della televisione commerciale e della mercificazione della vita quotidiana e dei sentimenti, va al di là di Berlusconi  (Marco Belpoliti, L'Espresso)

16 novembre 2010

Generazione locked-in

di Marco Manassola - Il Manifesto, 7 novembre 2010

Quando penso alla generazione cui appartengo, e a quelle che si affacciano a seguire, penso spesso alla sindrome locked-in. Come saprete, si tratta di una condizione poco gradevole. Persone che non controllano più alcun muscolo si ritrovano, perfettamente lucide, prigioniere dentro un corpo paralizzato – riuscendo al massimo a muovere una palpebra. È la stessa generazione di Christian Raimo che sulle pagine del Manifesto [l'articolo è anche su minima et moralia], giorni fa, poneva una domanda cruciale. Perché un popolo di trentenni precari e sottopagati, de-realizzati, senza prospettive su alcun piano, si limita a soffrire ognuno per conto suo, nel chiuso ermetico della propria esistenza? Raimo citava la storia della laureata che guadagna poco più di seicento euro al mese e ne spende trecento per andare in analisi, per sopravvivere all’assenza di realizzazioni nella sua vita.

Una gioventù locked-in. Essere nel pieno del vigore e riuscire al massimo a muovere una palpebra. Le alternative, almeno a giudicare dal teatrino a oltranza che occupa la scena di questo paese, sarebbero le solite: diventare un cervello in fuga o carne da macello per il grande carnevale al potere. Fare la fila ai provini dei reality oppure, se si è ancora abbastanza freschi per soddisfare il mercato, provare a vendere tutto quello che si ha da vendere. Il vecchio Papi della Patria di sicuro gradirà. Nel frattempo, sullo sfondo di questo girone grottesco, di questa scena comica e horror, la nostra vita passa e scade.

Torniamo alla domanda cruciale. Perché tutto questo malessere introiettato, questa consapevolezza solitaria e impotente, questa paralisi e questa scarsità di reazioni che siano soprattutto reazioni condivise? Perché questa “incoscienza di classe”? Già dieci anni fa, nel suo La solitudine del cittadino globale , Zygmunt Bauman scriveva che “le sofferenze che ci tormentano non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime. Le sofferenze e i disagi contemporanei sono dispersi e diffusi, e così il dissenso che producono. La dispersione del dissenso, l’impossibilità di concentrarlo e di ancorarlo a una causa comune, rende solo più acute le pene.”

La dispersione è l’orizzonte in cui siamo cresciuti. Abbiamo identità sincretiche, sfaccettate, frammentate e dislocate. Il mercato delle merci e delle esperienze ha instillato in noi, volenti o nolenti, la percezione che la vita vera fosse sempre altrove, sempre un po’ più in là, in un altro luogo: non solo nell’acquisto di un’altra merce o in un altro piano del centro commerciale, ma proprio in un’altra esperienza da fare, in un altro incontro da consumare, in un’altra emozione da non lasciarsi sfuggire, in un altro viaggio da intraprendere, in un altro capitolo del nostro romanzo interiore. Siamo cresciuti pensando che la nostra vita vera fosse altrove solo per renderci conto, infine, che forse non è più da nessuna parte. È anche per questo che essere qui e ora, in pieno, con l’altro e con la sua lotta, anche quando la sua lotta è così vicina alla nostra, ci è così difficile.

Non abbiamo più chiaro cosa sia una comunità e per questo, ancora nostro malgrado, siamo cresciuti con una percezione intima di destra, solitari imprenditori di noi stessi. Ci vuole un doppio, profondissimo sforzo di rielaborazione per ritrovare una via alla sinistra, alla comunità, seppure ormai con la nostra consapevolezza, con la nostra spigolosa individualità. La rete, in questo, sembrava una grande promessa: in quale modo identità sfilacciate come le nostre, piene di tentacoli brancolanti nel buio, potevano allacciarsi e operare in comune? Con il modello dei neuroni e delle sinapsi, ci hanno risposto la rete e l’iperconnessione. E in parte è stato vero. La rete ha creato nuove forme di comunità, fluide e cangianti.

09 novembre 2010

Orchi



(scritto di Franco Berardi Bifo)

La sera del 4 novembre ho seguito la trasmissione Annozero del bravissimo Santoro con disagio, fastidio, ripugnanza. Tutto mi è sembrato orribile, perché rimestare nella merda immerda chiunque. Ma la palma di uomo più ripugnante dell’anno, che ho deciso di attribuire personalmente, tocca a Paolo Mieli. Il direttore del Corriere della sera, untuosamente gareggiando con Emilio Fede e Lele Mora (ma forse battendoli di qualche lunghezza) si è rivolto al presidente del Consiglio per invitarlo a fare più attenzione alle sue frequentazioni.

Ma come, diceva Mieli, non si rende conto signor presidente del Consiglio, di frequentare persone indegne, corrotte, volgari, insomma puttane? Non infanghi, signor Presidente la Sua carica con quelle compagnie di bassa lega.

Vorrei, se mi è concesso, rimettere le cose al loro posto.

Nella storia dei festini a casa Berlusconi non c’è un problema di moralità o di rispetto delle istituzioni. C’è soltanto la solita storia dello sfruttamento dei corpi da parte di uno sfruttatore, con la solita mediazione di ruffiani, lenoni, prosseneti, o caporali. Ci sono ragazze povere, proletarie e precarie alla ricerca di un ingaggio per una serata o per una mesata che accettano di essere assunte da caporali ruffiani che si chiamano Emilio Fede Lele Mora, Angeletti o Bonanni o Sacconi, per potersi offrire sessualmente a un individuo che le paga somme più o meno consistenti, se accettano di accoppiarsi con lui e con i suoi sodali. La morale non c’entra niente, la famiglia la sacralità e tutte queste stronzate non c’entrano niente. C’entra solo la miseria sociale che spinge milioni di persone a vendersi a chi detiene il potere e il danaro. Punto e basta. C’entra la miseria intellettuale prodotta da trent’anni di veleno mediatico, che ha tolto ai corpi e alle menti giovani la capacità di ribellarsi, di prendere a calci i padroni che li sfruttano, o li violentano per pochi euro (molti euro talvolta, quando al puttaniere schiavista di turno vien voglia di essere generoso). C’entra la miseria psichica di una generazione incapace di solidarietà, di auto comprensione, di organizzazione politica, di ribellione, di autonomia etica, politica e sociale.

Nell’agghiacciante spettacolo di Annozero questo emergeva con forza impressionante: il disprezzo che ogni giovane intervistato (gli amici di Karima o il suo fidanzato, per esempio) manifestavano nei confronti della loro coetanea e in conclusione il disprezzo di sé, che il cinismo produce.

Da trent’anni i ruffiani che procurano carne al dittatore si sono impadroniti dell’intero sistema di comunicazione. Fede e Mora si occupano di procurare carne sessuata per le voglie dell’orco di Palazzo Chigi, ma Paolo Mieli procura carne lavoratrice per le voglie dell’orco Marchionne. Non c’è differenza tra l’orrore dei festini e l’orrore di Pomigliano, sia ben chiaro. La storia è la stessa.

Una generazione distrutta psichicamente, intellettualmente, moralmente e sessualmente da una classe dirigente la cui bassezza ha ormai superato ogni possibile giudicabilità.

Della generazione precaria fanno parte allo stesso titolo milioni di lavoratori costretti ad ammazzarsi per un salario infame, e milioni di giovani donne e uomini costretti a vendere pezzi del loro corpo per i succhiamenti di vecchi bavosi, sfruttate poi gettate in pasto a una stampa pruriginosa e ipocrita che usa i prezzolati accoppiamenti come merce di scambio per operazioni politiche di guerra fra porci.

Negli ultimi giorni la guerra fra porci ha raggiunto forse un punto di svolta, chi può mai dirlo.

Finora abbiamo subito il dominio dei ladri, ora tocca prepararsi al dominio degli assassini. I salvatori della patria che si delineano all’orizzonte, i Fini e i D’Alema non sono meglio dell’orco obnubilato dal delirio pornografico-senile. Sono peggio.

Quando a Genova fu necessario torturare e uccidere, nel luglio 2001 Berlusconi incaricò della bisogna il suo Ministro degli interni, che si chiamava Fini. E il primo a violare l’articolo 11 della Costituzone non è stato Berlusconi, ma D’Alema che ha sulla coscienza i bombardamenti criminali sulla fabbrica Zastava di Belgrado e centinaia di militari italiani morti per gli effetti dell’uranio impoverito.

Un articolo di Alberto Asor Rosa uscito sul Manifesto del 4 novembre col titolo Uscire dall’era berlusconiana ( qui ) rischia di alimentare illusioni pericolose, tipo: si può ancora salvare la democrazia italiana se qualcuno caccia l’orco da Palazzo Chigi. Attenzione, non è così. Non c’è più nulla che possa salvare questo paese il cui futuro è scritto nella devastazione che trent’anni di avvelenamento hanno prodotto.

Il regime di Mussolini aveva distrutto la coscienza dell’intero popolo e questo poté risvegliarsi soltanto quando la guerra distrusse il paese. Ma il fascismo di Berlusconi ha distrutto qualcosa di ancor più profondo: non solo la coscienza, ma il rispetto di sé, fondamento di ogni ribellione, di ogni solidarietà e di ogni autonomia.

Una piazza Loreto si sta preparando per il cavalier Berlusconi. Sarà una piazza mediatica, naturalmente, e come accadde nel 1945, a gridare contro il tiranno saranno soprattutto coloro che fino a ieri lo hanno sostenuto. Piazza Loreto fu un episodio di barbarie, culmine e frutto di un ventennio di barbarie. Ma non si esce dalla barbarie senza passare per la Resistenza.

A Roma il 16 ottobre abbiamo visto insorgere quella minoranza che non ha perduto la dignità e la consapevolezza, quella minoranza che ha resistito e che resiste. Non disarmiamola promettendogli la facile soluzione di un governo nel quale accanto ai Fini e ai D’Alema siederanno Marcegaglia e Montezemolo e Marchionne. Quello non sarebbe il governo di liberazione, ma il governo dello schiavismo normalizzato, il governo degli orchi senza feste.

Franco Berardi “Bifo”
Fonte: www.facebook.com
Link: http://www.facebook.com/people/Franco-Berardi/1085524363#!/notes/franco-berardi/orchi/466522670368
5.11.2010olo

04 novembre 2010

I cinque anni di Ammazzatecitutti


Il 4 novembre, festa dell’unità nazionale del nostro Paese, è divenuto per la Calabria il giorno della Speranza.

Dopo decenni nei quali non avevamo avuto il coraggio di guardare la paura dritto negli occhi, dopo decenni nei quali i calabresi sembravano rassegnati all’ineluttabilità della disfatta, dopo decenni nei quali ogni famiglia aveva cresciuto una figlia di nome Rassegnazione, il 4 novembre 2005 i calabresi hanno fatto la loro piccola rivoluzione.

Senza armi, senza i missili terra-aria e le autobomba che i nemici della vita non avevano esitato a far esplodere a Reggio Calabria in pieno centro, anche vicino ad ospedali ed asili, negli anni della seconda guerra di mafia.

Senza soldi, mezzi, senza organizzazione. Forti delle nostre identità, delle nostre radici, abbiamo affidato alle nostre gambe il passo della Speranza, tenuti per mano dai nostri genitori e dai nostri nonni, e anche di quelli che per paura ci spiavano dietro le tende delle finestre, ma che in cuor loro facevano il tifo per noi.

Molti ci davano per vinti prima ancora di cominciare, poi, sono arrivati i ragazzi e le ragazze di tutta Italia. Ognuno, dietro quello striscione, ci ha dato una parte del suo coraggio, per guardare dritto in faccia il male, per fagli capire che ci eravamo finalmente svegliati, e che non avevamo più intenzione di chiudere gli occhi, o di voltarci dall’altra parte: “E adesso ammazzateci tutti“.

Quel giorno, il 4 novembre del 2005, la ‘ndrangheta ha capito che era l’inizio della sua fine.

Eravamo riusciti a portare per le strade di Locri più di ventimila persone, rompendo a mani nude un muro di omertà e paura.

Era la nostra piccola rivoluzione della normalità. Sì, perché al Sud anche la normalità ha qualcosa di rivoluzionario.

(dedicato a tutte quelle persone che in cinque anni hanno accompagnato e fatto crescere “Ammazzateci Tutti“)

Aldo Pecora

Presidente “Ammazzateci tutti”