16 novembre 2010

Generazione locked-in

di Marco Manassola - Il Manifesto, 7 novembre 2010

Quando penso alla generazione cui appartengo, e a quelle che si affacciano a seguire, penso spesso alla sindrome locked-in. Come saprete, si tratta di una condizione poco gradevole. Persone che non controllano più alcun muscolo si ritrovano, perfettamente lucide, prigioniere dentro un corpo paralizzato – riuscendo al massimo a muovere una palpebra. È la stessa generazione di Christian Raimo che sulle pagine del Manifesto [l'articolo è anche su minima et moralia], giorni fa, poneva una domanda cruciale. Perché un popolo di trentenni precari e sottopagati, de-realizzati, senza prospettive su alcun piano, si limita a soffrire ognuno per conto suo, nel chiuso ermetico della propria esistenza? Raimo citava la storia della laureata che guadagna poco più di seicento euro al mese e ne spende trecento per andare in analisi, per sopravvivere all’assenza di realizzazioni nella sua vita.

Una gioventù locked-in. Essere nel pieno del vigore e riuscire al massimo a muovere una palpebra. Le alternative, almeno a giudicare dal teatrino a oltranza che occupa la scena di questo paese, sarebbero le solite: diventare un cervello in fuga o carne da macello per il grande carnevale al potere. Fare la fila ai provini dei reality oppure, se si è ancora abbastanza freschi per soddisfare il mercato, provare a vendere tutto quello che si ha da vendere. Il vecchio Papi della Patria di sicuro gradirà. Nel frattempo, sullo sfondo di questo girone grottesco, di questa scena comica e horror, la nostra vita passa e scade.

Torniamo alla domanda cruciale. Perché tutto questo malessere introiettato, questa consapevolezza solitaria e impotente, questa paralisi e questa scarsità di reazioni che siano soprattutto reazioni condivise? Perché questa “incoscienza di classe”? Già dieci anni fa, nel suo La solitudine del cittadino globale , Zygmunt Bauman scriveva che “le sofferenze che ci tormentano non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime. Le sofferenze e i disagi contemporanei sono dispersi e diffusi, e così il dissenso che producono. La dispersione del dissenso, l’impossibilità di concentrarlo e di ancorarlo a una causa comune, rende solo più acute le pene.”

La dispersione è l’orizzonte in cui siamo cresciuti. Abbiamo identità sincretiche, sfaccettate, frammentate e dislocate. Il mercato delle merci e delle esperienze ha instillato in noi, volenti o nolenti, la percezione che la vita vera fosse sempre altrove, sempre un po’ più in là, in un altro luogo: non solo nell’acquisto di un’altra merce o in un altro piano del centro commerciale, ma proprio in un’altra esperienza da fare, in un altro incontro da consumare, in un’altra emozione da non lasciarsi sfuggire, in un altro viaggio da intraprendere, in un altro capitolo del nostro romanzo interiore. Siamo cresciuti pensando che la nostra vita vera fosse altrove solo per renderci conto, infine, che forse non è più da nessuna parte. È anche per questo che essere qui e ora, in pieno, con l’altro e con la sua lotta, anche quando la sua lotta è così vicina alla nostra, ci è così difficile.

Non abbiamo più chiaro cosa sia una comunità e per questo, ancora nostro malgrado, siamo cresciuti con una percezione intima di destra, solitari imprenditori di noi stessi. Ci vuole un doppio, profondissimo sforzo di rielaborazione per ritrovare una via alla sinistra, alla comunità, seppure ormai con la nostra consapevolezza, con la nostra spigolosa individualità. La rete, in questo, sembrava una grande promessa: in quale modo identità sfilacciate come le nostre, piene di tentacoli brancolanti nel buio, potevano allacciarsi e operare in comune? Con il modello dei neuroni e delle sinapsi, ci hanno risposto la rete e l’iperconnessione. E in parte è stato vero. La rete ha creato nuove forme di comunità, fluide e cangianti.

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