22 ottobre 2010

L'antimafia, i forcaioli e la Calabria respingente



Chi vuole mandarmi via dalla Calabria?

di Piero Sansonetti


Sono sempre più complicate le vicende che riguardano la libertà di informazione. A volte incomprensibili, a volte inestricabili. Assai complicate dal fatto che chiunque partecipi alla polemica non è molto interessato, in genere, agli argomenti in discussione, ma è solo preoccupato di schierarsi con la sua squadra. Se è di destra si schiera con Berlusconi se è di sinistra contro.

Devo dire la verità: a me non è sembrata per niente chiara neanche la vicenda Fazio-Saviano-Benigni. Ha sollevato un iradiddio, ma leggendo i giornali non sono riuscito a farmi una idea. I giornali di sinistra – diciamo così: di sinistra, anche se avrei molto da discutere… – sostengono che la Rai sta boicottando la trasmissione di Fazio perché antiberlusconiana. E capite bene che se le cose stanno così non è un fatto positivo. I giornali di destra sostengono invece che per questa trasmissione Saviano aveva chiesto un compenso di 240 mila euro (per quattro puntate) e Benigni di 350 mila euro (per una sola puntata) e del compenso di Fazio non si sa bene. Capite che se davvero fosse così, e se la Rai si fosse opposta per ragioni economiche, tutta la scena cambierebbe, e a fare la figuraccia non sarebbe più la Rai ma Saviano e Benigni, cioè due personaggi molto importanti e autorevolissimi dell’intellettualità italiana.

Io francamente non riseco a capire chi ha ragione, perché i giornali di sinistra non fanno cenno a questi compensi, e i giornali di destra non fanno accenno, e neanche smentiscono, però, il veto berlusconiano del quale parla Saviano.

Come ci si può orientare? È ragionevole conoscere la verità? Se davvero Saviano e Benigni prendono quelle cifre, francamente mi pare un po’ difficile chiedere alle masse popolari di scendere in piazza a loro difesa, visto che in genere un bravo impiegato o un operaio (cioè i componenti delle masse popolari), per guadagnare 350 mila euro ci mettono più o meno 15 anni. Se invece Saviano e Benigni, come sarebbe logico, prendessero solo poche centinaia (o al massimo migliaia di euro) allora è giusto che scatti la protesta. Così come è sicuramente giusta una protesta, anche piuttosto forte, contro il fatto che il premier (che si batte per la propria impunità, col lodo Alfano) pretende poi di portare in tribunale la Gabanelli. È una cosa insensata: se il premier pensa che un premier debba restare fuori dai palazzi di Giustizia, per evitare interferenza tra i poteri dello Stato, è chiaro che questo vale sia se è accusato ma anche se è accusatore. Se Berlusconi vuole fare causa alla Milena Gabanelli aspetti che si concluda il suo mandato.

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Luca Telese, sul Fatto, mi accusa di essere un servo di Berlusconi e addirittura “un agente provocatore”, perché nella trasmissione di Vespa sul caso “Annozero” non ho mandato anch’io affanculo Masi, ma mi sono limitato a criticarlo con toni gentili. Vorrei fare una osservazione e una domanda. L’osservazione me l’ha suggerita Saviano, il quale l’altra sera ad “Annozero” ha detto che se uno va in Tv è bene che sia pagato perché solo se è pagato poi il pubblico e i commentatori hanno il diritto di criticarlo. Rivendico il lodo- Saviano: io quando vado in Tv non vengo mai pagato, e dunque non esiste il diritto di critica nei miei confronti! Taci, o Telese!

La domanda agli amici del Fatto è questa: ma questo Telese è omonimo di quel Luca Telese che fino a un annetto fa era una firma di punta del Giornale? Io personalmente da Berlusconi, in tutta la mia vita, ho preso 300 euro per un articolo che scrissi tre anni fa su Panorama. Ben pagato, devo dire. Quel Luca Telese omonimo di Luca Telese mi sa che ha beccato qualche euretto di più… Direte: ma il lavoro è lavoro, uno che fa il giornalista lo fa ovunque. Beh, io – che pure sono venduto a Berlusconi – quando me ne andai da Liberazione ebbi offerte di lavoro dal Giornale, da Libero, e dal Foglio, tutti quotidiani che ritengo rispettabilissimi, ma siccome erano giornali di destra, o comunque moderati, preferii accontentarmi dell’assegno di disoccupazione.

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Mi accusano di avere licenziato da Calabria Ora – un giovane giornalista antimafia. Io non ho licenziato nessuno. Questo giornalista nelle settimane scorse ha inventato clamorosamente delle notizie che mi riguardavano, e ha avanzato sospetti sulla mia simpatia per la mafia. Per ovvi motivi lo ho querelato, ma mi sono ben guardato dal sollecitare misure disciplinari. Nessuno degli atti di questa vicenda è avvenuto nella riservatezza, tutto in pubblico, e quindi è facile verificare ogni passaggio: il Cdr di Calabria Ora e anche la Fnsi calabrese sanno perfettamente che ho fatto di tutto per evitare provvedimenti nei confronti di questo giornalista e anche per impedire il suo trasferimento da Reggio a Catanzaro (che pure era abbastanza logico) vista la sua ferma opposizione. L’editore però non era d’accordo con me e lo ha licenziato. I sindacati, se lo riterranno opportuno, potranno intervenire.

Tutta questa vicenda si è particolarmente arroventata per varie ragioni. La principale credo che sia stato il mio noto e insopportabile garantismo. Nei giorni scorsi avevo pubblicato un ampio articolo su Calabria Ora intitolato “Antimafia sì forcaioli no”. È successo un putiferio. Per settori non piccolissimi della sinistra, soprattutto in regioni come la Calabria, dichiarasi garantisti è un po’ come dichiararsi mafiosi. Per esempio dubitare che – in assenza di informazioni contrarie – il presidente della Regione Scopelliti sia un leader indiscusso della ‘ndrangheta, equivale a una ammissione di affiliazione alle cosche. Bé, vi dico la verità: sono venuto in Calabria per fare il giornalista e continuerò a farlo come lo facevo a Roma, resterò garantista, combatterò i linciaggi, le gogne, e le orge dei sospetti. Se vorranno possono sempre cacciarmi, per me non sarà la prima volta…

21 ottobre 2010

La propaganda e la Biutiful Country

La Calabria sottosopra


«La ’ndrangheta è viva e marcia insieme a noi». La frase era su uno striscione portato da una ragazza quindicenne nella marcia contro la ‘ndrangheta sabato 25 settembre a Regggio Calabria. Uno slogan che riassume comple­tamente la situazione della Calabria di oggi e che Nino Amadore, giornalista del Sole 24Ore che da anni segue quella regione per le pagine locali del suo giornale, prova a indagare nel libro in uscita per i tipi della casa editrice Rubbettino di Soveria Mannelli (Catanzaro) che appunto si intitola “La Calabria sottosopra” (115 pagine, 12 euro). Il volume, già in libreria, è un’inchiesta sulla conta­mi­nazione culturale che la ‘ndrangheta ha saputo organizzare, permeando con i suoi uomini tutto ciò che era possibile permeare.
Un libro che prova a raccontare le conse­guenze concrete del sotto­sviluppo mafioso cui non sono estranee le scelte e le azioni di una classe dirigente troppo a lungo legata diret­tamente ai famigli delle ‘ndrine o alla loro subcultura mafiosa. Ma anche una classe politica che si è allenata, a destra come a sinistra, a rappre­sentare interessi molto spesso opachi, molto spesso della ‘ndrangheta. Così la rappre­sentanza dell’illegalità è diventata un fatto naturale, scontato, tanto da far apparire ai più folle chi osa ribellarsi al potere costituito che qui non è lo stato ma il potere parallelo. La ‘ndrangheta, certo, ha capito prima degli altri che bisognava attrezzarsi e non farsi travolgere dal futuro: ha mandato i propri figli a studiare, ha occupato l’università più predi­sposta a certe operazioni come quella di Messina, ha fatto valere il proprio potere sul mercato degli scambi criminali con la mafia siciliana. La ‘ndrangheta si è quasi fatta classe dirigente in enti locali, province, unità sanitarie locali e mutuando i riti massonici o entrando a pieno titolo nelle logge ha portato i propri uomini nei salotti buoni. E così anche chi si credeva esente da certo malaffare criminale, come la provincia di Cosenza, non lo è più. Anche il migliore degli esperimenti come l’Università di Arcavacata a Rende, esempio di convento laico per una possibile e liberale classe dirigente del domani, ha dimostrato tutti i limiti.
Una regione che è un nodo da sciogliere perché è la dimostrazione concreta, dati alla mano e storie a bizzeffe, di come non sia possibile in Italia un vero federalismo fiscale che veda gli enti locali prota­gonisti per esempio della caccia agli evasori fiscali: ve lo immaginate un sindaco eletto in Calabria con i voti delle famiglie mafiose andare in cerca di evasori fiscali?O vi immaginate quel giovane primo cittadino, un profes­sionista, il quale pur di essere eletto dice candi­damente che la lotta alla ‘ndrangheta spetta allo Stato e non ai Comuni? Per non parlare degli impren­ditori: alcuni (pochi) che provano a lanciare messaggi antimafia, qualche altro come Pippo Callipo che ne fa una battaglia umana, passionale, personale ma poi la butta in politica, qualche altro che pensa di darla a bere a tutti cercando alibi per continuare a fare quello che ha sempre fatto: il colluso. Pochissimi si presentano in questura o dai carabinieri per denunciare il racket o pressioni sugli appalti. C’è tutto questo e altro ancora nel libro di Amadore. Il quale indaga senza pregiudizi ma anche senza voler nascondere nulla. E guarda la Calabria ancora dal bar Bristol, il locale di fronte all’Università di Messina dove i giovani rampolli di ‘ndrangheta si fermavano a chiac­chierare e qualche volta a decidere grandi strategie. Criminali.

18 ottobre 2010

Senza causa

dal blog di Enrico Sola

Consulto pochissimo Facebook, ma ogni volta che do un’occhiata da quelle parti mi rendo conto che trabocca di gente presa da una o più cause.

Tutti hanno qualcosa da dimostrare o hanno dei proseliti da fare, hanno qualcosa da proporre, stili di vita da promuovere o - peggio - qualcosa da vendere
Ci sono quelli che pubblicano tutto lo scibile umano sulle malefatte di Berlusconi e si indignano in coro nei commenti. Ci sono gli interisti militanti, i ciclisti “no oil” (btw: spero sempre gli salti via il sellino, alla Fantozzi: sono riusciti a rendere odiosa una cosa semplice e popolare come la bici), gli adottatori compulsivi di cani e gatti, i meridionalisti incazzati, i postatori seriali di videoclip monotematici, i vegani molesti, le fashion victim, i “guarda che belle foto che faccio” e così via.

Forse sto invecchiando. O forse sto diventando - uccidetemi, nel caso - moderato (brrrrrr), ma non ho cause da proporre, non ho scelte di vita da presentare al prossimo (le tengo per me), non ho gruppi a cui appartengo che mi inorgogliscono più di tanto, non ho nessun posto o evento a cui invitarvi e no, non vi consiglio di aggiungere alcunché all’elenco di menate di cui tutti farciamo i nostri profili Facebook. E figuriamoci se ho qualcosa da vendere.

Eppure sono uno a cui non mancano le opinioni. Ok, è un eufemismo. Riformulo.
Eppure sono un fazioso di merda, ben oltre i limiti della sopportabilità, a cui non è affatto estraneo il concetto di militanza per cause grandi o piccole, serie e idiote (soprattutto idiote).

Però, boh, mi rendo conto che in questo diluvio di issues, di proclami, di inviti e di adunate non ho voglia di dire niente e non ho voglia di seguire niente e nessuno. E non è pigrizia. È che non sono mai convintissimo. O se lo sono, lo sono con dolcezza.

Faccio un esempio. Penso che Minzolini sia un servo patetico, ma non mi metterei mai in coda dietro a quelli che chiedono le sue dimissioni ai quattro venti, fanno le adunate col Waka-waka e si indignano. E dire che hanno ragione. Però proprio non ci riesco. E vale così per un miliardo di altre cause che quotidianamente infestano il mio Facebook.

In un periodo pieno di assoluti, ho solo pensieri morbidi. Il gruppo più accanito a cui riuscirei a iscrivermi su Facebook sarebbe qualcosa tipo “Forse sarebbe meglio che la gente guardasse di più Star Trek” o “Non maltrattate i panda ma non dategli neanche troppa confidenza, ché non si sa mai”.

Temo che, accantonata l’ipotesi della demenza senile precoce, il perché di questo rifiuto della militanza e dell’enfasi conseguente sia tristissimo. Mi sa che mi sono convinto che non ha senso sbattersi troppo, perché tanto il prossimo non ti capisce e viviamo in un paese (in un mondo?) di scemi. E non vale solo per la politica, ma anche per tutto il resto.

Insomma, il solito disperato “no future” del punk senza l’incazzatura nichilista, senza le spillette cool e senza il giubbotto di pelle, che fa tanto figo.

11 ottobre 2010

Giuseppe Scopelliti, Lucio Musolino e una informativa dei carabinieri

da netnews1.org

Un bravo giornalista sta sempre sulla notizia. Antonino Monteleone dà la possibilità di leggere cosa c'è scritto sull'informativa dei Carabinieri allegata al fascicolo dell'inchiesta Meta, da cui Lucio Musolino ha tratto spunto per i suoi articoli e il suo intervento durante il collegamento diretto con la trasmissione "Annozero", il quale ha indotto il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti a presentare querela contro di lui. Nella Calabria di oggi è difficile fare politica senza entrare in contatto con persone facenti parti di consorterie mafiose. Monteleone offre un esempio concreto di questo. L'amara considerazione del giornalista è che nessuno si sogna di fare passi indietro: la politica calabrese continua a fare il suo corso infischiandosene se le informative di polizia o collaboratori di giustizia parlano di frequentazioni "pericolose" con personaggi "equivoci", indagati o, addirittura, arrestati. L'unico provvedimento concreto preso è querelare un giornalista, la cui unica colpa è attingere a quelle fonti per lo svolgimento del suo lavoro.

Quando il Liga non basta: il nuovo spot del Pd tra boschi di braccia tese e messaggi senza feedback

09 ottobre 2010

Nella trincea di Reggio tra giudici coraggio e servizi deviati

Giudici coraggiosi, politica e servizi deviati Pignatone: "Collusi anche negli apparati dello Stato"
dì Sandra Amurri - Il Fatto Quotidiano
La città alle prime ore del mattino si mostra surriscaldata e non solo per via di un sole agostano. Davanti alle edicole si fermano a leggere le locandine con la foto del bazooka fatto ritrovare da una telefonata anonima a pochi passi dall'ufficio del Procuratore capo Giuseppe Pignatone. Nei bar commentano la notizia e c'è chi ad alta voce ripete: Pignatone è bravo peccato che se ne sta per andare. Vox populi, vox Dei. Dopo quasi vent'anni, per la prima volta due "forestieri" Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino arrivati da Palermo assieme a quellaparte "sana" del Palazzo, a giovani magistrati e alle forze di polizia - presenti con un 30% in meno del dovuto - iniziano a fare indagini che non guardano in faccia a nessuno: politici e "traditori" . E quel sistema consolidato che ha reso la Calabria terra estranea ai circuiti informativi. Affiliazioni in crescita
A ROSARNO15 mila abitanti ci sono 250 affiliati. Se aggiungiamo i parenti e gli amici la situazione si aggrava. "Ne facciamo 3 o 4 la settimana" dice il boss Oppedisano intercettato. A Reggio la situazione non è migliore. Giusto per fare un parallelo. A Bagheria ai tempi di Provenzano su 58 mila abitanti, gli uomini d'onore erano 58. "Mi chiedono se la 'ndrangheta riscuote consenso. Ma di cosa discutiamo?". Gli arresti, il sequestro dei beni, i pentiti, la prima grande operazione H crimine condotta con la Dda di Milano, segnano l'inizio e la svolta di quel metodo che a distanza di pochi mesi inizierà a far saltare il coperchio di una pentola da cui esce puzza di servizi deviati. Forze che scendono in campo in difesa della restaurazione. L'ultimo processo ai mafiosi "Olimpia" risale al '95. Da allora il vuoto. È come dire che la conoscenza di Cosa Nostra si fosse fermata al maxi-processo. Nel frattempo l'organizzazione criminale è proliferata senza ostacoli articolandosi in una miriade di famiglie di cosche espandendosi in Liguria dove ha fondato una sorta di "camera di controllo" in cui decidere le controversie. In Piemonte ma anche in Germania, in Svizzera in Canada e in Australia. Il commercialista e l'altro Stato L'ODORE DI SERVIZI deviati è riconducibile ad un nome: Giovanni Zumbo. Commercialista stimato a tal punto che gli era stata anche affidata la gestione dei beni sequestrati, che gode va della fiducia dei magistrati, che ha prestato servizio presso la segreteria politica dell'onorevole Alberto Sarra durante la presidenza Chiaravalloti, attuale sottosegretario regionale alle riforme della Giunta Scopelliti. Era stato fiduciario del Sismi, Zumbo, e di alcuni marescialli del ros Guardia di Finanza poi passati al Sisde. È lui che da le notizie fresche di giornata sulle indagini in corso alla 'ndrangheta. Come viene raccontato dal Procuratore Pignatone alla Commissione Antimafia. Sembra la sceneggiatura di un film. Le intimidazioni di gennaio IL 21 GENNAIO 2010, mentre Napolitano sta lasciando Reggio Calabria dove è arrivato per manifestare solidarietà al Procuratore Generale Salvatore Di Landra oggetto di minacce, i carabinieri scoprono una Fiat Marea con a bordo esplosivo pistole, fucili, guanti di lattice e passamontagna. Le indagini rivelano che il contenuto non aveva alcuna potenzialità lesiva, le armi erano arrugginite, l'esplosivo era artigianale, i guanti di lattice e i passamontagna erano nuovi (quindi l'auto non era stata abbandonata in fuga ma era stata parcheggiata per essere ritrovata). Quelle armi erano state usate nel 2004 e nel 2005 per una serie di attentati estorsivi contro auto e saracinesche dei negozi. Era stata la cosca Ficara. Un passo indietro. Una microspia installata precedentemente dai Ros a casa del boss Giovanni Pelle svela che Zumbo (il commercialista), mentre i carabinieri stavano ancora scrivendo l'informativa, era a conoscenza dell'inchiesta Il Crimine, anche più degli stessi magistrati. Tanto che assicura che avrebbe consegnato l'elenco di quelli che sarebbero stati arrestati. Il progetto va a monte perché per Pelle e Zumbo scattano le manette. I carabinieri rivelano che la fonte confidenziale che aveva permesso di rinvenire l'auto con l'esplosivo era Zumbo. In sintesi Zumbo per accreditarsi come fonte attendibile aveva fatto fare ai carabinieri quel "colpaccio". La Procura sta cercando di trovare le risposte alle seguenti domande: "Chi ha mandato Zumbo da Ficara? Chi lo ha autorizzato a compiere l'operazione della macchina da far ritrovare durante la visita di Napolitano? Chi lo ha mandato dal mafioso Pelle a fornirgli tutte quelle notizie sull'operazione H Crimine?". Di certo Zumbo può aver avuto le notizie solo da un appartenente agli apparati di polizia o di sicurezza. "Ho ritenuto opportuno di rappresentare questa situazione perché inserisce un tassello allarmante della situazione odierna in Calabria caratterizzata da minacce, attentati ecc... Spero di essere stato chiaro", ha detto il procuratore Pignatone all'Antimafia. Se ne deduce che le istituzioni, la politica, lo Stato sappiano che il salto di qualità è dato dalla presenza accertata di "infiltrati, di persone che giocano una partita illecita anche nell'ambito degli apparati, che ci sono collusioni". Quello che ci troviamo davanti, varcata la soglia dell'ufficio, è un uomo che non porta i segni della fatica nonostante venga accompagnato in ufficio alle 8 del mattino da sette agenti che lo riaccompagnano in caserma a notte inoltrata. È un uomo, si sa, abituato a contenere le emozioni. Dalla sua bocca non riceviamo una sola parola arrendevole, neppure pensando a quel bazooka - ora nelle mani della scientifica - pronto per colpirlo. Bensì ragionamenti lucidi che ci spiegano come sia complicato ma non impossibile lavorare in una realtà da sempre dimenticata. Uno sguardo d'insieme CERTO A GUARDARSI attorno, lo sporco in terra, il senso di abbandono che ne deriva, la mancanza di organico - il passaggio obbligato nei bagni per raggiungere dalla stanza del Procuratore a quella di Prestipino - fa apparire l'arrivo dell'esercito un moscerino inviato a combattere gli elefanti. Lo Stato qui è latitante da anni, senza che nessuno lo cercasse. Ora che inizia ad avere volti e nomi, c'è chi si adopera a sfiancarli. E non è certamente la 'ndrangheta. Pignatone non se ne andrà sicuramente prima della scadenza dei tre anni: "Continueremo a fare quello che con tutti i nostri limiti riteniamo di dover fare nel rispetto della Costituzione e del codice. Per il resto è veramente un problema della politica". E se non è chiaro tutto lascia credere che lo sarà tra non molto.

07 ottobre 2010

Una maestra che sfida la 'ndrangheta



La violenza che scompagina in modo drammatico la vita di una famiglia. La resistenza quotidiana di Liliana Carbone all’oppressione mafiosa. Sono i temi al centro del documentario indipendente  “Oltre l’inverno”, realizzato da tre giovani autori catanzaresi: Massimiliano Ferraina (regista), Claudia Di Lullo (dialoghista) e Raffaella Cosentino (giornalista freelance). Trenta minuti di immagini che si concentrano sui gesti quotidiani di mamma Carbone a Locri. Momenti carichi di ritualità e di significati perché esprimono il dramma di aver perso un figlio di 30 anni ucciso dalla ‘ndrangheta e il bisogno di andare ‘oltre’, di mantenere viva l’attenzione allargando il campo rispetto alla vicenda personale.

Liliana Esposito Carbone è una maestra elementare di Locri e ha visto uccidere suo figlio nel cortile di casa in un agguato la sera del 17  settembre 2004. Massimiliano stava rientrando con suo fratello da una partita di calcetto. Le ferite gravi riportate nell’agguato non gli hanno risparmiato 7 giorni di agonia prima di spegnersi in ospedale. E’ morto il 24 settembre di sei anni fa, esattamente nel giorno del compleanno di sua madre. Quel giorno segna il passaggio del testimone. A chi ha ucciso per affossare la verità in una tomba, Liliana risponde diventando uno straordinario megafono per chiedere giustizia, non solo per suo figlio ma per tutti i ragazzi e i bambini di Locri.  E’ superfluo dire che Massimiliano era incensurato, amava il calcio. Aveva fondato una piccola cooperativa. Aveva una vita normale. Un giovane calabrese che aveva deciso di restare nella sua terra. La sua fine è ancora avvolta dal mistero. Il tribunale di quella città e i suoi inquirenti non hanno saputo dare una verità giudiziaria alla mamma di Massimiliano, perché la sua famiglia trovasse il conforto della giustizia giusta. Raccontare il caso Carbone è difficile perché non esiste una sentenza da riportare nelle cronache, una risposta a chi si chiede perché tanta violenza su un giovane al di fuori da qualunque contesto criminale. Una storia piena di buchi e di colpevoli reticenze.
Liliana Carbone non ha risparmiato risorse personali e forze fisiche nella ricerca della verità. Né si è preoccupata di esporsi ai rischi delle ritorsioni, dell’isolamento e della calunnia. Una vicenda che tira in ballo connivenze e omertà , visto che a Locri non si uccide senza il coinvolgimento di killer delle cosche o senza l’assenzo della ‘ndrangheta. Una storia che finora insegna che si può uccidere impunemente. Ma anche che non si può mettere a tacere la verità a fucilate. Perché dopo Massimiliano, c’è Liliana e dopo di lei ci siamo noi che continueremo a raccontare la sua lotta, perchè è la battaglia di tutti coloro che non si rassegnano, che non si chiudono nella paura e nel silenzio. Liliana ha fatto del dolore una battaglia civile. E in terra di ‘ndrangheta se chiedi a testa alta il rispetto dei tuoi diritti di cittadina, di madre, di maestra, chiedi di cambiare le cose. La rivendicazione individuale diventa una causa collettiva. Oltre l’inverno vuole combattere l’idea che ci sono “pezzi di paese dati per persi” dai giornali e dai politici. 
“ Nella vita personale e nella società ci sono periodi che assomigliano molto all’inverno- dice il regista Massimiliano Ferraina - Come nel ciclo delle stagioni l’inverno si trasforma in primavera così nella vita personale e nella società è necessaria una trasformazione. Quando ho incontrato per la prima volta Liliana Carbone, sono rimasto colpito dalla forza e dall’energia con cui questa donna portava avanti la sua richiesta di giustizia. Subito si rimane colpiti dai suoi argomenti mai banali e dalle citazioni letterarie, dalla capacità di analisi non comune e dal suo desiderio di trasformazione. Nessuno può comprendere il dolore di una madre per la perdita del figlio e altrettanto difficile è comprendere una lotta che spinge oltre i valori di una società che spesso pigramente rimane legata a disvalori che considera immutabili”. Su come vincere questa sottocultura mafiosa gli autori del documentario vogliono offrire spunti di riflessione. Un’intenzione che Liliana Carbone ben sintetizza nella frase:“Perché non c’è una evoluzione, che è già una forma di trasformazione, qui da noi? Perché per cambiare qualcosa c’è bisogno di vincere l’assuefazione e l’immobilismo, quella forma di conservazione che ci fa pensare di rischiare la nostra sicurezza ”. Oltre l’inverno racconta la ‘ndrangheta come un’immane sofferenza sociale, in cui le donne hanno un ruolo di primo piano, sia le donne di mafia che trasmettono i disvalori alle nuove generazioni, sia le donne che incoraggiano il cambiamento, offrendo per questo ideale la loro stessa vita. "L'esperienza più significativa è stata quella di vedere una mamma, che lotta senza tregua per proteggere la memoria di suo figlio- commenta Claudia Di Lullo - è la storia umana di Liliana che ha catturato la mia attenzione. La sua tenacia, il suo coraggio. Un prezioso incoraggiamento  per tutte le donne calabresi”.

05 ottobre 2010

Reggio Calabria piena di tritolo aspetta il “Botto”. L’Italia prepara lacrime di coccodrillo



di Lucio Fero da blitzquotidiano.it

A Reggio Calabria attendono il “Botto”. Basta accendere una radio e ascoltare un notiziario per saperlo, oppure fare una telefonata laggiù a qualcuno che ci vive e lavora. A Reggio Calabria la ‘ndrangheta ha fatto quel che non ha mia fatto, ha “rivendicato” l’ultimatum in  forma di bazooka lasciato davanti alla sede del Tribunale, destinatario del messaggio il magistrato Pignatone. La ‘ndrangheta non rivendica mai, non ha bisogno di farlo perché si riconosca la sua “firma”. Se lo fa è perché a suo modo “avverte” che il “Botto” si avvicina. Basta chiederlo all’ultimo cronista che si occupa di crimine organizzato, basta chiederlo al primo poliziotto che si incontra “laggiù”. A Reggio Calabria circolano armi, armi pesanti come non mai, armi che vengono esibite. Basta mettere in fila le sequenze delle minacce di un anno. A Reggio Calabria c’è tanto esplosivo, tanto tritolo. Basta ascoltare il pacato e informato servizio mandato in onda dalla radio della Confindustria. Basta non essere sordi, ciechi e muti per sentire e vedere il pericolo del “Botto”, cioè dell’attentato in grande stile.

Ma non risulta che il capo del governo e  presidente del Consiglio stia per lanciare un pubblico monito alla ‘ndrangheta, uno di quei suoi discorsi tesi, decisi e nervosi con cui ogni giorno l’inquilino di Palazzo Chigi sbatte il pugno sul tavolo e avverte il popolo che “non lo permetterà”. Non risulta che il ministro degli Interni Maroni sia pronto ad una pubblica dichiarazione, ad uno “scudo”, fosse anche solo verbale, ad un avvertimento che lo Stato non tollererà. Non risulta che il ministro della Giustizia Alfano abbia contattato il Csm e che il Csm abbia reciprocamednte fatto altrettanto con il ministro. Una riunione, una sede congiunta, un’immagine di unità da sbattere in faccia a chi prepara il “Botto”. Non risulta, non c’è: il ministro è impegnato con il Lodo e il processo breve, il Csm con la pratica a tutela contro le dichiarazioni di Berlusconi.

Non risulta che la Fiom stia allestendo un presidio di piazza in una piazza di Reggio. Né che Beppe Grillo abbia aperto il suo blog per farne anello di una catena che disinneschi per quel che può la miccia che corre verso il “Botto”. Non risulta che i vari “popoli della legalità” stiano mobilitando per costruire una cintura umana a difesa degli uomini della legge minacciati di “Botto”. Non risulta che Bonanni e la sua Cisl e Angeletti e la sua Uil abbiano allertato le “strutture territoriali” dei rispettivi sindacati dopo le notizie, anzi le prove, della infiltrazione della ‘ndrangheta nelle imprese di “laggiù”. E non risulta che la Cgil di Epifani mediti, se non uno sciopero, almeno una “mobilitazione” laggiù. Non risulta che le due opposizioni, quella di centro e quella di sinistra, abbiano telegrafato a tutti i “circoli” di cui dispongono “laggiù” per fare da “scudi” politici se non umani ai possibili bersagli del “Botto”.

Non risulta nulla del genere. Faranno eventualmente tutto questo. Eventualmente dopo, dopo il “Botto”.

04 ottobre 2010

New entry a Palazzo Grazioli

L'informatissimo sito di gossip Dagospia pesca nella rete un'altra prodezza del Sultano di Arcore, nella sua evoluzione trash definito Cavalier Cialis. Una nuova frequentazione per Silvio Berlusconi: tale Viviana Andreoli, pittrice di quadri erotici e già autrice di un romanzo a tinte hot. Basta dare un'occhiata ai quadri con vaghi echi esoticheggianti gaugeniniani e klimtiani per capire la cifra estetica della suddetta. Di certo c'è un quadro dedicato a Mamma Rosa Berlusconi, tanto basta per fare di un artista di strada, un'eletta, pardon una prediletta, una donna nelle grazie del Cavaliere. Non una Rosy Bindi qualunque.

Il Papa a Palermo, la Digos da Altroquando