30 agosto 2010

Gianfry's song

Il Giornale di Vittorio Feltri non sa più cosa inventare per denigrare il cofondatore del Pdl Gianfranco Fini. Oggi parla anche di un video caricato su You tube, dal contenuto ironico molto discutibile, caricato da un anonimo, che udite, udite è il nuovo tormentone web dall'alto delle sue trecento visualizzazioni. Cosa non si fa per compiacere il padrone di riferimento.

29 agosto 2010

La Lunga Marcia del movimento No Ponte



di Emilia Maltese - Il Manifesto

La colonna di fumo bianco esce costantemente da una delle bocche che le trivelle di Eurolink hanno creato in Via Circuito a Torre Faro, dove dovrebbe sorgere il pilone siciliano del ponte sullo stretto. Il raggruppamento di imprese che ha vinto la gara per il General contractor del collegamento stabile da otto mesi ormai studia, analizza e incamera dati sulla natura geomorfologica del sottosuolo siciliano. Informazioni che devono essere allegate al progetto esecutivo del ponte in fase di elaborazione da parte di ingegneri e tecnici di Impregilo, società capofila di Eurolink. È qui che il popolo del no ponte si è dato appuntamento anche quest'anno per manifestare contro l'idea della grande opera. Tremila circa i cittadini che ieri, costumi, ciabatte, bandiere, fischietti e le immancabili magliette griffate No Ponte, hanno sfilato lungo le strade di Torre Faro partendo dalle trivelle e arrivando al parco letterario Horcynus Orca dove dopo il corteo si sono svolti i concerti e gli spettacoli delle associazioni teatrali e delle band che aderiscono alla rete. Il dissenso in questa edizione 2010 ha due spinte in più: la presenza delle trivelle. E 37 vite spezzate, quelle dei cittadini messinesi di Giampilieri e Scaletta Zanclea spazzato via insieme al fango e all'acqua dell'alluvione del 2 ottobre scorso. I comitati JVo Frane di quelle zone di Messina, periferia a sud della città, all'opposto di Torre Faro, chiedono che i sei miliardi di euro previsti per progettazione e costruzione (anche se in tanti sostengono che la cifra non sia sufficiente a coprire i costi del Ponte) vadano destinati alle opere di messa in sicurezza di uno dei territorio più a rischio e anche più devastati d'Italia dove il tributo ad un dissesto idrogeologico pervasivo e profondo ha fatto 37 morti. Sei miliardi di euro per recuperare un territorio, il più sismico d'Italia, dove un terremoto come quello del 1908 troverebbe una città del tutto impreparata a fronteggiare l'emergenza. Senza vie di fuga e con abitazioni insicure. Il movimento No Ponte si oppone con forza. E per farlo, i cittadini di un nuovo comitato, il Capo Peloro che raccoglie gli abitanti di due condomini nell'area delle trivelle, hanno opposto il proprio rifiuto alle richieste di Eurolink di entrare con trivelle nelle aree condominiali. «Il problema - dicono mentre marciano i cittadini della zona - è che nessuno di Eurolinnk ma anche al Comune ci spiega cosa stiano facendo. Sentiamo tremori nel sottosuolo, che prima non subivamo. Siamo preoccupati e vogliamo risposte, ne abbiamo diritto». Di diritti parla anche Eurolink che non ha intenzione di rinunciare ad effettuare sondaggi geognostici anche nelle aree private della zona. Minacciando l'uso delle forze di polizia per entrare, se necessario, con la forza. Il corteo della rete No Ponte è una nuova puntata della battaglia che oppone il movimento alla società Stretto di Messina spa e adesso al general contractor. «Hanno stanziato 500 milioni di euro per questa fase di progettazione - dicono ancora dal corteo, gli organizzatori - fondi che serviranno per avviare i cantieri e magari il movimento terra che è il vero affare di questo grande progetto». In tanti, infatti, sono ancora convinti che manchino tutte le risorse necessarie per portare a compimento il progetto del ponte. Servirebbero investimenti molto più ridotti, ad esempio, per impedire lo smantellamento attualmente in atto, del servizio di traghettamento delle Ferrovie dello stato. Questa è l'altra proposta della rete no Ponte: usare i fondi del Ponte per incrementare la flotta di traghetti e rendere competitivo un servizio, quello in mano alle Ferrovie dello stato, che da anni ormai ha reso le armi ai traghetti privati di Tourist & Caronte. Su cui, anni fa, l'Antitrust ha emesso una sentenza di «condanna» per abuso di posizione dominante, dimostrando così che incrementando il numero delle navi in servizio fra Sicilia e Calabria non si formerebbero le code agostane ai terminal di Messina e Villa San Giovanni. Protezione del territorio, mobilità urbana, sviluppo sostenibile e turistico, questi è quello che vogliono i messinesi del No Ponte.

27 agosto 2010

Reggio, la bomba e il verminaio


L'aria è pesante in riva allo Stretto, dopo la bomba ad alto potenziale piazzata sotto l'abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro. Il movente resta ignoto. La strategia della tensione mira a destabilizzare Tutti i quotidiani nazionali mettono in risalto il nuvo corso inaugurato nove mesi fa da Di Landro. Sullo sfondo trame eversive, pezzi di serviszi segreti deviati, depistaggi. Nella città palude tutto si inabissa. "Nei prossimi mesi arriveranno in corte d'Appello 45 maxi-processi. E poi i lavori di costruzione del Ponte sullo Stretto, soldi che fanno gola alle 'ndrine. E c'è chi non esclude che un filo rosso colleghi Reggio a Palermo, come testimoniano i proiettili inviati alle due procure, uguali come i messaggi che accompagnavano", come sospettato dal Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso
E' un problema di uomini e mezzi ha spiegato Di Landro, anche se è il sostituto Nicola Gratteri a esemplificare il problema: "Con questi codici non si va da nessuna parte, con questo sistema alla fine delinquere non è sconveniente. Pensi alla recente operazione tra la Calabria e Milano che ha portato a centinaia di arresti: la metà dei processati, se condannati, si faranno sei o sette anni di galera. Niente rispetto alla prospettiva di gestire interi Comuni. Il sistema penale non è all'altezza. Se invece li condannassimo a 30 anni da scontare in un'isola a lavorare per mangiare, allora delinquere sarebbe sconveniente. E forse i 15enni penserebbero che è meglio lavorare la terra piuttosto che fare i corrieri della droga. Anche stavolta si sente dire che "lo Stato deve reagire". (Il Riformista).

Tornando al cuore del problema. La domanda che in tanti si fanno a Reggio è perché dopo otto mesi sono tornati alla carica contro il Procuratore Di Landro? Da quando si è insediato nel novembre dell'anno scorso, Di Landro ha messo in liquidazione quella pratica che lui stesso ha definito da "ufficio saldi". Il suo arrivo alla Procura generale ha coinciso con l'abolizione del "patteggiamento allargato", una prassi molto diffusa a Reggio. La direttiva Di Landro è stata quella in sostanza di confermare le pene di primo grado, senza i saldi dell'appello della gestioni passate. Non si è ai livelli dell'ammazzasentenze, ma per i mafiosi, il procedimento in appello ha sempre rappresentato una via di fuga, un controbilanciamento rispetto alla rigidità della "prima linea", delle inchieste della Procura, delle retate della polizia giudiziaria e delle condanne durissime in primo grado. E poi c'è un episodio in particolare che è sulla bocca di tutti e che lo stesso Di Landro ha ampiamente motivato al Csm. E riguarda un sostituto procuratore generale, Francesco Neri, che in via cautelare il Csm ha trasferito alla Corte d'appello di Roma. In sostanza, Neri era il pm di un processo d'appello contro gli imputati dell'omicidio della guardia giurata Luigi Rende, uccisa il primo agosto del 2007 nel corso di una rapina. Processo nel quale Neri rappresentava la pubblica accusa. Di Landro, quindi, decise di togliere il procedimento a Neri a poche udienze dalla sentenza di Appello che ha confermato cinque ergastoli comminati in primo grado. (Claudio Cordova, l'Unità)Legale di uno degli imputati è lo stesso difensore del Pm nell'udienza, Neri appunto, l'avvocato Lorenzo Gatto (Guido Ruotolo La Stampa). Il caso Neri è stato portato all'attenzione del Csm e il magistrato è stato trasferito per incompatibilità ambientale a Roma. E' un argomento su cui torna anche sullo stesso giornale il "mafiologo" Salvo La Licata: "in Calabria ciò che accade non ha solo un movente mafioso", nel senso che non è solo la 'ndrangheta a muovere i fili. C'è una situazione di condizionamento ambientale, di collusione diffusa che può benissimo indurre a scelte cruente anche la più placida delle borghesie mafiose". Il vulcano è pronto a eruttare, come testimoniano anche le intimidazioni al sindaco facente funzioni Peppe Raffa e le intimidazioni al procuratore Pignatone, lo sciame intimidatorio. Francesco Viviano su Repubblica parte da lontano nell'analisi della situazione: "La cimice (quella ritrovata negli uffici dui Nicola Gratteri, n.d.r.) a palazzo di giustizia l'ha messa quel magistrato...". E fa anche il nome, quello di un notissimo magistrato calabrese. "Hai saputo che hanno trovato una microspia negli uffici del pm Gratteri?», chiede un familiare al boss detenuto e che era stato arrestato per avere favorito la latitanza di uno dei più grossi capi mafia calabresi, Pasquale Condello. Il detenuto, senza tentennamenti risponde in maniera lapidaria: "Si, gliel'ha messa...... È un'intercettazione ambientale, una conversazione registrata, l'inchiesta sarà archiviata". Spazio sulla stampa anche ai collegamenti con l'ultima inchiesta "Il Crimine" e al ruolo di un arrestato, Giovanni Zumbo, commercialista, soltanto indagato, in passato segretario particolare dell'onorevole Sarra,sottosegretario della Regione, l'uomo che avvisa mafiosi del calibro di Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara dei blitz che da Reggio a Milano si stanno per abbattere sulla 'ndrangheta. Nei prossimi mesi potrebbe abbattersi un terremoto sulla vita politica calabrese: "Perché restringe e di molto il campo in una città dove tutti, dai salotti che contano ai frequentatori dei caffè del centro, sanno che presto uno tsunami giudiziario si abbatterà sulla politica calabrese. Arriverà da Milano, dove Ilda Boccassini ha decapitato la Cupola della 'ndrangheta in Lombardia, o dalla stessa procura di Reggio, dove si scava ancora sui rapporti tra boss e politici di rango". Enzo Ciconte, esperto di 'ndrangheta mette sull'allerta: "Temo che possa succedere qualcosa di più pesante". Da Di Landro anche parole amare: "Ora arrivano le solidarietà ma poi tutto tornerà come prima E ci scapperà il morto". Alcuni degli arrestati nel corso dell'inchiesta Il Crimine avrebbero iniziato a collaborare se fosse vero - sarà interessante capire che cosa accadrà nei prossimi mesi/anni, anche perché sembra che le prime dichiarazioni chiamerebbero in causa alcuni politici calabresi in affari con le cosche proprio in Lombardia. Del resto, tanto a Milano quanto a Reggio, nessuno fa mistero del fatto che le inchieste in autunno subiranno un nuovo impulso che dovrebbe condurre proprio nelle stanze dei bottoni della politica lombarda e calabrese.

25 agosto 2010

L'insegnamento di Rita Atria



Rita Atria si è tolta la vita 18 anni fa, il 25 luglio del 1992, sei giorni dopo l'uccisione di Paolo Borsellino.
A 11 anni perse il padre, don Vito, mafioso di Partanna, pochi anni dopo venne ucciso il fratello di Rita, che si confidava con lei. Rita trovò il coraggio di rivelare i segreti al giudice Paolo Borsellino, cosa che consentì l'arresto di numerosi mafiosi.

"Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci". E ancora: ""Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare; forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo". Il monito di Rita Atria grida vendetta in un paese senza memoria e senza verità.

24 agosto 2010

Il profumo ammorbante dell'insulto

Quando la filosofia politica si traduce in scatologia, va in scena l'insulto coprofago. Ecco un sintetico campionario.

"(Fini) È un uomo freddo, anaffettivo, spietato, mi fa davvero tristezza. Vuole che glielo dica senza giri di parole? Umanamente è una merda" (Daniela Santanché)

"Silvio ha intorno ormai solo quattro stronzi servili che gli danno informazioni sbagliate. E che questa volta lo hanno davvero fregato" (Paolo Guzzanti)

"Casini è uno stronzo. Casini è come quelli che non potendo avere meriti o qualità insultano gli altri"(Umberto Bossi)

Non è il girone della merda pasoliniano di Salò e le 120 giornate di Sodoma. Siamo solo nell'implosione del centrodestra, dove volano stracci. Giorni di m., insomma.

23 agosto 2010

Il caso Mancuso e il familismo dalla parte degli intellettuali


Si fa presto a dire: "Ribelliamoci al cancro berlusconiano, mandiamolo via, la società civile deve avere uno scatto di reni, eccetera". Quanti appelli ha firmato l'intelighentia italiana edita a Segrate?

Dopo la pubblicazione dell'editoriale del teologo Vito Mancuso che ha abbandonato di fatto la casa editrice di Segrate, in seguito alla legge ad aziendam che ha condonato praticamente quasi 350 milioni relativi a una controversia che il gruppo teneva con il fisco, beneficiando di una legge appositamente varata, sono in pochi ad avere abbandonato il comodo vascello del primo gruppo italiano. I casi di coscienza se li risolvono da soli, il danno economico non giustificherebbe le logiche dominanti. Le giustificazioni sono molteplici. In realtà anche gli intellettuali italiani tengono famiglia. Tutti compatti e solidali contro il genocidio in Ruanda o la povertà nel Botswana. Magari sono gli stessi intellettuali che si ribellavano contro Massimo D'Alema, quando infuriava la polemica sul segretario del principale partito di opposizione che pubblicava libri per la Mondadori. Fino alla prossima levata di scudi.

17 agosto 2010

I deliri del Gattosardo

Litfiba contro Berlusconi e Dell'Utri. L'assessore: mai più in Sicilia

Litfiba al centro delle polemiche. Nell'overture che precede l'inizio del concerto il frontman dei Litfiba Piero Pelù apre con una serie di premesse:
"Benvenuti al concerto per gli spiriti liberi, benvenuti per chi non crede nei mezzi di distrazione di massa", aggiungendo: "Benvenuti al concerto per chi crede che Dell'Utri ci abbia rotto il cazzo...". E' bastata l'invettiva pronunciata da Pelù contro il senatore del Pdl nel concerto di Campofelicedi Roccella in Provincia di Palermo, a fare sbottare l'assessore provinciale alle politiche giovanili Eusebio D'Alia: "L'assessore alla Cultura della Provincia di Palermo: "Pelù ha insultato Berlusconi accusando lui e i suoi più stretti collaboratori di collusione con la mafia". Come se le sentenze che hanno condannato Marcello Dell'Utri per associazione esterna mafiosa e stabilito che nell'arco dei vari anni l'esponente politico abbia frequentato mafiosi sia un'invenzione della Procura di Palermo, non sia già verità giudiziaria. La replica: "Invito i primi cittadini di Sicilia a non ospitare artisti che abbiano come unico scopo il pontificare e fare lotta politica". Così vanno le cose, l'omertà paga anche a livello artistico.

16 agosto 2010

In Calabria, Sicilia e Campania il mare più inquinato



Campania, Calabria e Sicilia. E' questo il verdetto della classifica del mare più inquinato d’Italia che ogni anno individua le peggiori acque nostrane, secondo i parametri di Goletta Verde. Il veliero di Legambiente che tutti gli anni naviga per oltre duemila miglia attorno allo Stivale ha individuato 169 punti critici per il 2010 che minacciano la salute del mare italiano, uno ogni 44 chilometri di costa. Inquinate sono invece ben 132 foci di fiumi. Possono festeggiare invece Sardegna e Puglia a cui va la palma del mare più pulito.

Dall'indagine emerge che il 15% degli italiani è privo di allacciamento alla rete fognaria, mentre addirittura il 30%, pari a 18 milioni di cittadini, scarica i propri reflui non depurati direttamente nei fiumi, nei laghi o in mare. Sardegna e Puglia invece si distinguono in positivo anche per l`assegnazione delle vele, il riconoscimento ottenuto dai comuni costieri con la Guida Blu 2010 di Legambiente e Touring Club. "Servono 30 miliardi di euro per completare la rete di fognatura e depurazione", ha detto il responsabile scientifico di Legambiente, Stefano Ciafani.

13 agosto 2010

Il dovere della chiarezza e il porto delle nebbie

In un post del blog del giornalista del Sole 24ore Roberto Galullo si legge un esempio dell'ordinario assurdo della giuistizia calabrese, dove le talpe allarmano i malavitosi in procinto di essere sottoposti a provvedimenti di custodia cautelare e gli appalti vengono vinti sempre dagli stesse ditte, al punto che altre rinunciano a partecipare a priori, con la magistratura che non può intervenire Tutto di fronte a un'opionione pubblica indifferente, a un'opposizione sorda, e a un popolo bue che subisce il potere pervasivo del crimine e non riesce a rivendicare nemmeno un sussulto di dignità.

12 agosto 2010

Tony Scott secondo Maresco, la metafora di un tempo devastato e vile



Tony Scott, al secolo Anthony Sciacca, clarinettista di assoluto livello italo-americano (originario di Salemi), è morto a Roma nel 2007, ma ha vissuto negli Usa e in giro per il mondo la sua esistenza di jazzista randagio.

E' stato un innovatore che ha suonato con i più grandi, a partire da Charlie Parker, ma anche Dizzie Gillespie e Duke Ellington.

Dopo aver compiuto il periplo dell'Universo alla ricerca di nuovi stimoli, Tony si ritirò in Italia dove però fu presto dimenticato e relegato a suonare in feste di paese e a presenziare in squallide comparsate televisive, isolato come come un appestato del lebbrosario.

Franco Maresco racconta la sua epopea del documentario presentato al Festival di Locarno "Io sono Tony Scott ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz".

"Tony fu visto dai musicisti dell'avanguardia di allora addirittura come un fascista, perché vestiva di nero e aveva un quartetto con Romano Mussolini", spiega Maresco, "L'Italia con Tony dimostrerà di essere il paese incivile e imbarbarito che tutto il mondo conosce. Ecco, seguendo Tony Scott, raccontiamo gli ultimi trent'anni di vita italiana. Uno peggiore dell'altro, fino alla deriva attuale. Il grande clarinettista muore dimenticato da tutti nel 2007, a 86 anni, in un paese che non lo ha mai riconosciuto come il grande artista che era".

11 agosto 2010

I dettagli e la scena



Le chiamano armi di distrazione di massa. Da quando l'argomento principe sui giornali è diventato la dinasty story della famiglia Tulliani, non c'è più traccia dello scandalo P3. Naturalmente cresce tra l'opionione pubblica l'equazione: "Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera".

di Concita De Gregorio - tratto dal blog del direttore de L'Unita'

Siccome è impossibile, nelle tragiche attuali condizioni di reciproca capacità di ascolto, esporre dubbi e osservazioni senza essere d'ufficio iscritti dagli addestratori di cani da combattimento in una delle due tifoserie (insomma è impossibile parlare di Fini senza dire se lo vuoi morto o vivo) dirò che lo voglio vivo, come voglio vivi tutti, ma che penso come scriviamo da giorni che non si trovi in una bella situazione. Senza ripercorrere la storia, che conoscete, mi pare che come minimo abbia avuto un difetto di comunicazione e/o un eccesso di indulgenza col cognato, d'altra parte i cognati sono spesso sventure, e che se condizioni di favore ci sono state (se la casa valeva più del prezzo a cui è stata venduta, se il cognato ne ha approfittato, se insomma un bene di partito è finito per diventare un bene di famiglia) serve qualcosa di più del disappunto. Bisogna che spieghi meglio cosa è accaduto - dice che lo farà ai magistrati, i quali sinora non hanno ritenuto di ascoltarlo - e che regoli i conti, in senso metaforico e non, con il suo partito titolare dell'eredità, dunque eventualmente parte lesa. Detto questo, faccio osservare alcune coincidenze e una conseguenza nefasta della campagna dei veleni. Molti mesi fa Feltri aveva annunciato di aver trovato, nel suo traffico di dossier, materiale su Fini. In via preventiva, a mò di monito. Non appena Fini ha mostrato di volersi smarcare dalla linea di governo sulla giustizia (quella che Chiara Moroni sintetizza in: garantismo non è impunità) sono accadute tre cose: dall'esilio di Santo Domingo Gaucci ha deciso improvvisamente di cambiare avvocato, i legali del giro Previti-Dell'Utri hanno preso in mano la partita, è partito l'attacco contro Elisabetta Tulliani. È emerso un caso-Rai, di nuovo in capo alla famiglia Tulliani, infine Montecarlo. In ciascuna di queste storie ci piacerebbe sapere davvero, magari da un'indagine della magistratura nel caso ci fossero rilievi penali, come sono andate le cose. Prima, e diversamente, si tratta di ricostruzioni anche interessanti ma a volte di parte: anche i giornali possono essere fratelli, figli e cognati. La ricomparsa sulla scena di Previti, poi, ha fatto tornare in mente a molti l'antica storia dell'orfana minorenne da cui acquistò a un terzo del prezzo le 145 stanze di villa san Martino: non per fare paragoni - sono casi molti diversi, le responsabilità penali e le coscienze sono individuali - ma per dire che negli anni l'asticella dell'illecito morale si è alzata moltissimo e di dimissioni se ne son viste di rado. Campagne di stampa anche meno. La conseguenza: avrete forse notato che il caso Tulliani ha fatto piazza pulita sui giornali di P3, Verdini e Carboni, dell'inchiesta sulle stragi di mafia con imputati A e B. La capacità di concentrazione del resto in agosto è precaria, non si può stare attenti a tutto. Segnalo infine che le "cellule tipo" di cui vi parlavamo, i 180 mila che verranno porta a porta a far campagna elettorale, solo l'anticamera al plebiscito che Silvio B. spera di ottenere facendo sparire il simbolo Pdl dalle schede: ci sarà solo il suo nome, ci dice oggi il Congiurato. Che aggiunge come la fretta di votare sia legata alle scadenze di natura giudiziaria per il premier imminenti: quella sul legittimo impedimento per prima. Restiamo concentrati sulla scena, illuminerà i dettagli.

09 agosto 2010

Voto ai migranti: Caulonia ci prova ma il governo dice no




di Silvio Massinetti - Il Manifesto

Eravamo a marzo dello scorso anno e nello statuto della cittadina jonica, veniva introdotto il diritto all’elettorato attivo e passivo alle amministrative per gli immigrati in regola con il permesso di soggiorno. In seguito è stato emanato un regolamento che specificava le modalità di accesso al voto e ad agosto è stata istituita la Consulta degli immigrati con il compito di gestire la fase di transizione. Ma questa misura, simbolica eppure dal forte impatto politico, da ieri non c’è più. Il Governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri utile prima della pausa estiva, ha infatti bocciato il regolamento attuativo.
A Caulonia, borgo di ottomila anime, avevano provato a invertire il senso di marcia. Ma puntuale è arrivato l’alt delle truppe berlusconian-leghiste. «Ci rivolgeremo alla Corte dell’Aia - sbotta il sindaco Ilario Ammendolia (Pd)- per contestare quello che riteniamo essere un vero abuso di potere da parte del Governo. Già l’anno scorso tramite la Prefettura ci avevano intimato di ritirare la delibera in quanto ritenevano che avessimo commesso un eccesso di potere nell’attività amministrativa, ma per noi quel diniego era incostituzionale, così come lo è la bocciatura di ieri. I migranti sono cittadini a tutti gli effetti, lavorano, pagano le tasse, contribuiscono a creare ricchezza, ed è inconcepibile che abbiano zero diritti. Come si fa a pretendere da loro doveri a iosa se li priviamo poi dei più elementari diritti?».
In effetti suona anacronistico che il legislatore abbia esteso ormai quindici anni fa, con il decreto legislativo 197 del 1996, il diritto elettorale attivo e passivo ai cittadini della Unione europea residenti in Italia ma sia fermo e impassibile per quanto concerne i cittadini extracomunitari. «Era una cosa che andava fatta - continua Ammendolia - appunto per spronare la politica a intervenire per colmare questa vacatio legis davvero incomprensibile. In questi mesi avevo sollecitato i comuni che fanno parte della Rete dei Comuni solidali, a cui appartiene anche Caulonia, affinché deliberassero su questa falsariga. Ma la bocciatura del Governo, che temevamo sì, ma non con questa solerzia degna di miglior causa, rende le cose molto più difficili».
Ammedolia non le manda a dire nemmeno all’opposizione: «Se si tornasse al voto io credo che nel programma alternativo alla destra debba essere messo nero su bianco che i migranti in regola devono avere accesso all’elettorato attivo e passivo. Solo così e partendo da qui potranno essere coinvolti nella vita democratica delle città in cui lavorano. Deve cambiare l’ottica con cui guardare ai fenomeni migratori, che vanno letti come risorsa e come ricchezza e non come problema. Qui al sud nel corso dei secoli le popolazioni meridionali si sono arricchite nell’incontro con gli Arabi, con i Bizantini e il sud questo dovrà essere in futuro: un ponte dell’Europa verso il Mediterraneo. Le migrazioni da fame, guerre e carestie sono fenomeni universali che non si fermeranno e che tantomeno i respingimenti e le cannoniere di Maroni riusciranno a fermare. E a proposito di un futuribile «governo di transizione» guidato da Tremonti e in cui imbarcare la Lega, di cui ha parlato il segretario nazionale del mio partito, io dico che sarebbe una follia. Perché la Lega non la si insegue ma la si combatte nei suoi territori, mostrando il lato retrivo dei suoi sedicenti valori. Che c’azzecca un partito che si chiama democratico con una formazione apertamente razzista come quella di Bossi? Ed è proprio per questo tatticismo esasperato, per questa ricerca continua e ossessiva del politicismo e delle alchimie fini a se stesse, che mi trovo sempre più a disagio nel Pd».
Nonostante sia andata persa, per ora, la battaglia per il diritto di voto ai migranti, la lotta antirazzista di Caulonia in nome dell’accoglienza e dell’integrazione multietnica prosegue a ritmo serrato. «Abbiamo aperto nei giorni scorsi una sartoria gestita dalla comunità palestinese, una scuola di falegnameria, un negozio equosolidale e un laboratorio di ricamo a cura degli afghani. Viviamo in un paese in cui fino a 50 anni fa si lottava per la terra e non c’era un’abitazione per tutti - prosegue Ammendolia -, adesso la terra c’è, ma non ci sono i contadini. Il nostro tentativo è di affidare agli immigrati la gestione dei terreni, creando una comunità solidale e coesa, capace di far rinascere il borgo. Apriamo laboratori e insegniamo loro un mestiere. Per il programma di sostegno ai rifugiati denominato Sprar, all’inizio pensavamo ci destinassero solo una ventina di persone, invece sono state molte di più: dalle ragazze nigeriane ai rifugiati etiopi e somali, da quelli che scappavano dalla guerra in Bosnia ai palestinesi rifiutati dalla Siria. Non è stata un’esperienza facile e il cammino è duro ma vedere gli occhi ebbri di gioia del primo ferito di Rosarno, che in soli sette mesi si è inserito benissimo nel nostro tessuto sociale, ci ripaga dei nostri sacrifici».

L'altra Italia

Scrive Barbara Spinelli su La Stampa, a proposito del vulnus apportato dal berlusconismo, in riferimento alla spaccatura con l'ex sodale Gianfranco Fini: "In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.

Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d’interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate".

Capezzone, il trasformista per antonomasia

06 agosto 2010

I calabresi perdono Paese Sera


Non basta un numero all'anno. E ora un gruppo romano...

di Sandro Orlando - Il Mondo

Editori attenzione: non basta pubblicare occasionalmente un numero unico di una testata per mantenerne la proprietà. Lo ha stabilito una sentenza emessa ai primi di luglio dalla IX sezione del tribunale civile di Roma, che ha rigettato il ricorso avanzato dai due editori del quotidiano Calabria Ora, Pietro Citrino e Fausto Aquino, per rivendicare la proprietà di Paese Sera, lo storico quotidiano lanciato dal Pei nell'immediato dopoguerra e andato poi in crisi nella seconda metà degli anni Ottanta, fino alla sua messa in liquidazione nel '94.

Citrigno e Aquino, un costruttore il primo, un imprenditore della sanità privata. ÌI secondo, insieme già editori dì un altro piccolo giornale calabrese, La Provincia Cosentina, avevano rilevato all'inizio del 2008 il marchio Paese Sera attraverso la Piefile Holding. Ma era almeno dal '99 che la testata usciva con un numero unico all'anno; da qui l'estinzione di ogni diritto da parte dei vecchi proprietari visto che, come osserva il giudice Massimo Falabella con rinvio alla legge sulla tutela della proprietà intellettuale, «la pubblicazione con cadenza annuale di un quotidiano è senz'altro assimilabile a una non pubblicazione». La sentenza ha così spanato la strada alla cordata di imprenditori romani raccolti intorno alla figura di Alessio D'Amato, un ex consigliere regionale del Pd che già nell'estate del 2007 si era fatto tra i promotori del rilancio dì Paese Sera, registrandone il marchio e il dominio internet. Nel novembre dello stesso anno è così nata la Nuovo Paese Sera srl, una società editoriale con 10 mila euro di capitale che dopo diversi passaggi azionari fa oggi capo al commercialista Massimo Vincenti (con il 46%), che è anche presidente del collegio sindacale dell'agenzia Sviluppo Lazio, ail'imprendi tore del settore ristorazione Roberto Capecchi (25%), e per le restanti quote a Giuseppe Diana (servizi, catering, commercio), Alessandro Radicchi (software), Angelo Muzio (già socio degli Editori Riuniti) e alla Umbra tel coop (ricerche di mercato).

«Abbiamo già pubblicato cinque numeri di free press alle ultime amministrative», spiega D'Amato, «e a novembre saremo in edicola con un mensile d'inchiesta su Roma e provincia che punta alle 10 mila copie e sarà affiancato da un sito online di informazione sui quartieri». Il progetto editoriale è dì Enrico Pedemonte (La Repubblica) mentre a dirigere il nuovo mensile sarà Enrico Fontana (già direttore de la Nuova Ecologia e membro del direttivo di Lega ambiente) con sei giornalisti m redazione.

03 agosto 2010

Siamo giornalisti calabresi e siamo tutti esposti



tratto da Calabria Ora, 2 agosto 2010

Presto ci spareranno addosso. Perché capiranno che con le cartucce, le bottiglie incendiarie, le telefonate, le minacce mafiose perpetrate nelle loro più variegate forme non funzionano. Siamo giornalisti calabresi. "Infami, bastardi, pezzi di merda" dicono gli stessi mafiosi intercettati nelle carceri. E siamo tutti esposti. Noi che raccontiamo questa terra, e che la viviamo perché è qui che lavoriamo, non siamo come quei "prodi" censurati nel crudo fondo di Mimmo Gangemi su La Stampa del 5 gennaio scorso, i quali "col posteriore degli altri" diventano eroi frapponendo il giorno successivo "mille chilometri di distanza", dopo averci dato lezioni di civiltà" fistigando "l'omertà, le bocche cucite, quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna".

Sono gli stessi "prodi" che ancora oggi tacciono, lasciandoci nella solitudine dei nostri confini a fare quello che loro, privi dell'umiltà d'imparare a conoscere davvero questa terra, avamposto del Mezzogiorno, hanno provato a fare solo per "una sera". Per questo diciamo che tutti coloro che nelle redazioni dei giornali calabresi si occupano di nera o giudiziaria, o che comunque nel loro lavoro quotidiano fanno inchiesta toccando le commistioni perverse fra poteri forti, indipendentemente se rientrino o meno nel novero dei già minacciati, sono sovraesposti.

Qui c'è la 'ndrangheta, che prima di essere l'organizzazione criminale più potente a livello planetario, quella che ammazza e traffica droga, quella che stringe patti con la politica e l'alta finanza, è "cultura". Una "cultura" che noi siamo costretti ad affrontare ogni giorno, nelle aule di tribunale come fuori dalle questure, per le strade, nei bar. Oggi tocca al nostro Lucio Musolino, ieri ad altri colleghi di Calabria Ora, o del Quotidiano della Calabria o di qualsiasi altra testata. Domani toccherà ad altri colleghi ancora.

La Federazione nazionale della stampa porta il nostro caso all'attenzione del capo della Polizia e dei singoli prefetti, mentre solo grazie ad un libro realizzato dai colleghi Roberta Mani e Roberto Rossi o all'amicizia di pochi inviati della grande stampa, qualche testata nazionale dedica poche righe alle nostre vicende.

Sia chiaro al mondo: noi non vogliamo pubblicità, perché le intimidazioni non sono per noi galloni d'appiccicare sulle spalle. Chiediamo solo che la resistenza civile della stampa calabrese tutta - perché in questa sede noi di Calabria Ora vogliamo superare i distinguo e gli steccati della concorrenzialità fra testate - trovi sostegno da una categoria che si ricorda della Calabria solo se viene giustiziato il vicepresidente del consiglio regionale con l'unica colpa di essere un uomo perbene, se i sanlucoti compiono una strage a Duisburg, se una ragazza muore per un black out in sala operatoria o se gli immigrati di Rosarno si ribellano alla protervia dell'inciviltà.

Aveva ragione Mimmo Gangemi, abbiamo il "diritto di non essere eroi" e, aggiungiamo, di non diventare martiri. Perché noi vogliamo solo lavorare, lavorare bene, e in pace, animati da quell'impegno morale e civile che ci spinge solo a compiere quotidianamente il nostro dovere. Ha ragione il nostro sindacato, qui non viviamo nel terrore; d'altro canto però, non possiamo negare che spesso la preoccupazione ci assale. Perché il clima che ci avvinghia si ripercuote sulle nostre famiglie, prima che sulle nostre redazioni. E perché, in Calabria, al giornalista non è riconosciuto il ruolo che gli appartiene.

Facciamo cronaca spesso costretti a mendicare atti dagli stessi avvocati dei mafiosi di cui scriveremo il giorno dopo. Magari proprio di quei mafiosi che si siedono al nostro fianco durante un'udienza, o che ci fissano in cagnesco dalle sbarre mentre sotto i loro occhi prendiamo appunti. Stiamo da questa parte del nastro bianco e rosso, assieme ai familiari dell'ennesimo morto ammazzato di una faida che non fa rumore oltre il Pollino e lo Stretto. Per gran parte dei nostri politici siamo solo degli spioni che non si fanno mai gli affari loro, mentre magistrati e poliziotti sono costretti a guardarsi con circospezione ogni qualvolta ci avviciniamo anche solo per chiedere notizia su un'udienza preliminare o su un arresto.
Diamo il massimo, ogni santo giorno, per offrire un servizio al lettore, per informarlo, per alimentare la sua conoscenza su fatti di straordinario rilievo pubblico dei quali finalmente si scrive e che continueremo a scrivere , nonostante tutto. Non vogliamo essere né eroi, né martiri, vogliamo solo fare il nostro lavoro, il nostro dovere. Sperando di non doverci rassegnare alla solitudine.

02 agosto 2010

01 agosto 2010

Liberiamo l’Italia dal cancro berlusconiano

di Paolo D'Orsi - Micromega.it

In un celebre passaggio del Manifesto, Marx inventa la formula del “comitato d’affari della borghesia”, per indicare i governi nelle società capitalistiche: un concetto analogo troveremo quattro anni più tardi in un altro testo del fondatore del “comunismo scientifico”, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte.

A quanti di noi, specialmente da quando il cavalier Silvio Berlusconi è “sceso in campo”, nell’ormai pleistocenico 1994, sono venuti alla mente quei riferimenti marxiani? Io stesso credo di averlo fatto su queste pagine on line. Ma ora mi rendo conto – e faccio autocritica – che quella definizione (efficacissima, come sovente ne capita di trovare navigando nel vasto oceano di Marx, che era tra l’altro grande scrittore, dotato di piglio satirico assai notevole) è fuorviante. Anzi, ora dico: magari il governo – quello che ci sgoverna – fosse il comitato d’affari della borghesia italiana! Per quanto “melmosa” (e qui uso un aggettivo gramsciano) sia la strada dei borghesi nostrani – e ne abbiamo prova ogni giorno –, se per borghesi intendiamo in senso proprio i detentori dei mezzi di produzione, per quanto risibili siano i loro argomenti, agghiaccianti le loro politiche (si vedano le ultime performances dell’uomo del maglioncino, l’ineffabile Marchionne, solo pochi anni diventato intoccabile e miracoloso come Padre Pio), scellerate le loro scelte strategiche, che hanno devastato o distrutto settori di punta, come il chimico, il tessile e più recentemente l’elettronica; ebbene, lo spettacolo della compagine governativa, e della vasta coorte di miserabili che si interfaccia con essa, è qualcosa di assai diverso.

Non è neppure sufficiente evocare la “borghesia stracciona”, che ancora da Gramsci in poi tanti analisti critici della società italiana hanno storicamente posto sotto la luce del riflettore. Inadeguato parlare di “casta”, o usare il peggiorativo “cricca”. E il lessico inventato alla scoperta di Tangentopoli appare come un film in bianco e nero, l’immagine sbiadita di un documentario della “Settimana Incom” dove si vedono signori ancora molto “ingessati”, con abiti d’ordinanza, sottotono, che entrano ed escono dal Palazzo di Giustizia di Milano. Non è casuale che, come l’emergere dell’astro berlusconiano sia avvenuto sotto l’ombrello protettivo di una loggia segreta (massoneria deviata, dicono…), così il suo tramonto si collochi nel plesso di un’altra loggia, o forse loggetta, che raduna il “meglio” degli amici, e degli amici degli amici, del nuovo Principe. Li abbiamo visti, quei personaggi: in fotografia, in televisione, sulla rete: si assomigliano (quasi) tutti. Sembrano appena usciti da una seduta di fisiomassoterapia (c’è sempre una signorina Francesca – vero, dottor Bertolaso? – pronta a esercitare le sue magiche competenze sugli stanchi corpi di quegli ultrasessantenni, o ultrasettantenni, che ambiscono a trovare l’elisir non solo di lunga vita, ma di eterna giovinezza); sono tutti opportunamente trattati con lampade solari e prodotti da beauty farm, dove peraltro si recano periodicamente per rassodare ciò che è da rassodare, rilassare ciò che è da rilassare; sono levigati o meglio botulinizzati; sono pettinati e forse brillantinizzati, sia che abbiano chiome alla Verdini o teste di bitume modello Arcore; ostentano, insieme con i loro abiti griffati, la sicurezza degli impuniti che sanno di non poter incorrere nei rigori della legge. Vedi il ministro a otto pollici Brancher, il cui caso rappresenta uno dei punti più infimi dell’intera storia repubblicana; il che, in un Paese che ne ha viste davvero di cotte e di crude, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, fino al Pio Albergo Trivulzio di Milano, vuol dire davvero molto. Più di molto.

Insomma, stiamo assistendo da troppo tempo nel silenzio – ora dell’insipienza, più spesso dell’ignavia, di rado dell’innocenza – a un precipizio nell’osceno: un insieme di persone, governanti e loro clientes, badanti, massaggiatrici, fotomodelle, escort, aspiranti ministre, aspiranti veline (che poi è lo stesso), faccendieri, intrallazzoni, voltagabbana di ogni sorte, pseudofinanzieri, pseudoimprenditori, pseudogiornalisti, tutti in busca di premi, ingaggi, concessioni, ville con piscina, BMW con autista, superattici da ristrutturare a spese di qualcuno o semplicemente da ricevere in grazioso, quanto ignoto, dono da qualcun altro. Le intercettazioni – le provvidenziali intercettazioni telefoniche, e perciò da bandirsi, nel disegno del Neoduce – degli ultimi giorni ci hanno rivelato un panorama che neppure il più acrimonioso, prevenuto, ideologo della sinistra che più estrema non si può, sarebbe riuscito a immaginare. Un grumo esteso, che si è dilatato come un blob inarrestabile un po’ dappertutto; parlamentari, industriali, magistrati, giornalisti, banchieri, e gli immancabili saprofiti dell’intermediazione: “conosco una persona”, “ci parlo io, a quelli là…”, “vi metto in contatto”, “so io come fare per raggiungerlo…”, “sì, ma io che ci guadagno”?”. E via seguitando, in una sequenza che incomincia con un valzer triste, alla Sibelius, e finisce in un grottesco pastiche, alla Stravinskij.

Il berlusconismo, fase suprema del turbocapitalismo nella versione meneghina e insieme burina, ha vinto. E ora che lui, il Neoduce, sta per andarsene, la sua creatura ha ormai infettato il corpo del Paese, come una invasione di ultracorpi: non lo sappiamo, spesso tardiamo a riconoscerli, ma i berluscones sono tra noi. Parlano come noi, sì, a volte proprio come noi: e magari criticano il ducismo, l’illegalismo, l’immoralismo dell’uomo di Arcore; ma sono diventati troppo sovente portatori sani di quel virus. Bulimia di potere, insofferenza alle regole, concezione “sostanzialistica” del diritto (per cui ci metti dentro ciò che ti fa comodo, e ne togli ciò che può essere d’ostacolo ai tuoi interessi personali, di famiglia, di branco, di partito…), voglia di apparire, doppio registro di comportamento, inflessibili e rigorosi nelle dichiarazioni pubbliche (magistrato, docente universitario, manager, pubblico amministratore, politico di professione…), ma mafiosi e camorristi nelle pratiche concretamente inerenti allo stesso esercizio delle loro cariche, spesso usate soprattutto come gradini di una carriera che tende inesorabilmente (come dichiarò con cinica lucidità uno dei personaggi implicati, sia pure nell’infima del piccolo arrampicatore sociale, l’agente fotografico Fabrizio Corona), a tre obiettivi: 1. Il potere. 2. Il successo. 3. Le donne. Che, precisò, peraltro vanno dove c’è successo e potere. E, essenzialmente, dove si coglie l’odore dei soldi (concezione evidentemente poco sensibile alle istanze femministe, quella di Corona…).

Con i soldi Berlusconi ha creato “dal nulla” (?) un partito, appoggiandosi alla rete dei suoi venditori di Publitalia; poi ne ha messo su un altro, con il mitico discorso del predellino, che come ogni atto e detto del Cavaliere egli è arciconvinto passi alla storia; e ora si trova a perderne un pezzo: il messaggio in replica alle dichiarazioni feroci di Fini, con cui si sanciva il divorzio politico, è stato da Berlusconi inviato ai “promotori” del “Partito delle Libertà”: promotori, lo stesso termine, in quanto identico il concetto, di chi deve vendere un prodotto, che siano cofanetti di bellezza, o polizze assicurative, o spazi pubblicitari. Questi sono addetti a vendere libertà: un tanto al chilo, ma la libertà secondo il Cavaliere. Una libertà che persino a un ex fascista come Gianfranco Fini è apparsa, come dire?, un tantino estranea alla democrazia e alla stessa cultura liberale. Una libertà di tipo aziendalistico, dove il proprietario detta gli “obiettivi” all’amministratore delegato, e alla schiera dei dipendenti: e chi non raggiunge tali obiettivi, guai a lui. Licenziato.

Ma noi, noi tutti, quando troveremo la forza di licenziare lui? Sì, dico proprio lui, l’uomo che più di chiunque altri nel Dopoguerra, ha contribuito a devastare non soltanto l’economia, il territorio, l’ambiente, la cultura; ma la coscienza civile di questa Italia, che oggi è assai oltre la crisi di nervi. Possibile che in una situazione di crisi sociale e morale e politica come quella che stiamo vivendo non siamo in grado di dar vita a un movimento alternativo a questo panorama disgustoso? Ci accontenteremo delle congiure di palazzo per cacciare il nuovo Nerone? Contro questo mostruoso polipo che uno dopo l’altro va impadronendosi dei gangli vitali della società italiana, e sta cercando di impossessarsi anche dei nostri cervelli, non vogliamo tentare di suscitare, aggregare, e lanciare una resistenza organizzata, sistematica, capillarmente diffusa? Contro il “Partito della devastazione”, non vogliamo provare a dar vita a un “Partito della Salvezza”?

Salviamo l’Italia. Liberiamoci di costui, della sua banda di corrotti e corruttori: salvare l’Italia, motto di Carlo Rosselli contro il duce, oggi dovrebbe forse essere la parola d’ordine per chiudere per sempre una pagina terribile della storia nazionale. Salvare l’Italia, prima che la riducano in brandelli, che, opportunamente commercializzati, saranno rivenduti da un esercito di “promotori”. Salvare la Costituzione, salvare la libertà di informazione, salvare l’indipendenza della magistratura, salvare i diritti dei lavoratori, salvare la scuola e la sanità pubblica, salvare l’acqua e i servizi essenziali dall’assalto dei privati: questi i primi obiettivi da perseguire, contro la marea fangosa di un governo non più circondato da nani e ballerine, ma immerso nello sterco del diavolo, il denaro, principio e misura di ogni valore, per citare ancora Marx.

Salviamo l’Italia, contro i falsi profeti della “modernizzazione”. Formiamo “testuggine a resistere” (come disse Gaetano Salvemini, contro il fascismo), e passiamo al contrattacco, in una guerriglia culturale che usi ogni canale, ogni situazione, ogni occasione. E facciamo dell’autunno la stagione non solo del ripensamento, pur sempre necessario, ma di lotta. Diamo vita a una nuova “adunata dei refrattari”, e facciamo vedere, in concreto, che un’altra Italia esiste.

Angelo d'Orsi

P.s. A proposito di cancro. Che il premier Silvio Berlusconi fosse interessato alla lotta ai tumori lo si poteva dedurre da quando dichiarò, alcuni mesi fa, che il cancro sarebbe stato sconfitto in pochi anni. L'obiettivo però ha anche un risvolto pratico, secondo quanto riporta l'agenzia Bloomberg: il premier è diventato azionista di maggioranza dell'azienda MolMed, che ha allo studio due farmaci innovativi proprio in quest'area della medicina. Il leader del Pdl sarebbe salito lo scorso dicembre al 24% dell'azienda biomedica con sede a Milano, diventandone così il primo azionista.