30 maggio 2010

Questa storia dev’essere raccontata, perché sta uccidendo la nostra gente



di Gianluca Ursini

Neanche i Cani. "Nemmeno i cani trattano cosi la cuccia nella quale dormono", dice Antonio Nicaso, 17 libri di ‘ndrangheta alle spalle, una delle maggiori autorità mondiali in materia, consulente Unico Fbi sulla criminalità organizzata in Calabria. Sa bene di cosa parla quando analizza lo scempio che le Ndrine hanno fatto della loro regione: oltre 50 relitti sono stati affondati tra Jonio e Tirreno calabro a partire dagli anni ‘60, e chissà quante di queste carrette del mare conteneva scorie tossiche o peggio, materiale nucleare radiottivo. Le liste degli assicuratori navali londinesi ‘Lloyd's'' che pubblicano nel loro libro i cronisti calabresi Manuela Iatì e Giuseppe Baldessarro (‘Avvelenati' Città del Sole Edizioni, 16 euro) è di sicuro attendibile. "E non vuol dire - spiega Baldessarro - che tutte siano state affondate perché cariche di scorie avvelenate, ma di sicuro esiste un fenomeno sul quale i politici italiani
dovrebbero indagare. Esistono decine di potenziali Navi dei veleni nei nostri mari,e non ci possiamo accontentare di una singola ispezione del Ministero dell'Ambiente in novembre, per stabilire che la nostra gente è fuori pericolo". Baldessarro si riferisce ai rilievi disposti dalla ministro Prestigiacomo su di un relitto che nel novembre scorso aveva suscitato allarme al largo di Cetraro, provincia di Cosenza, medio Tirreno. Il relitto individuato dalle ispezioni ministeriali non corrispondeva alle descrizioni del mercantile ‘Cunski' che si credeva trasportasse materiali velenosi, e fosse stato affondato lì dalle ecoMafie. "Le rilevazioni degli ispettori non ci dicono cosa ci sia dentro quella nave al largo delle coste calabresi, ma non ci chiariscono se vi siano altri relitti in zona. E noi sappiamo che ve ne sono a decine. I cittadini italiani avranno diritto di sapere se la loro salute è in pericolo, viste le alte incidenze di tumori in
zona?" sostengono gli autori. Vicende torbide, con la partecipazione della Ndrangheta, si agitano intorno alle ‘Navi a Perdere' calabresi; soprattutto per quei 4 pentiti delel Ndrine (in una terra dove i pentiti di Mafia si contano sulle dita..) che hanno rilasciato dichiarazioni spontanee sull'argomento; "largamente inattendibili e smentiti dai fatti" secondo Baldessarro.. Come se sulla vicenda convenisse a qualcuno confondere le acque e rimestare nel torbido...

Ma che ce ne fotte a noi del mare! "Cumpari, ma se seminiamo tutta ssa merda in mare lo roviniamo!" "Ma che me ne fottE del mare! Coi soldi che ci danno pi st'operazione, il mare ce lo andiamo a trovare ai Tropici!" Questo è pressappoco il succo della conversazione che Natale Iamonte, boss di Melito Porto Salvo, ha sul telefonino intercettato con un affiliato del suo clan; commentano l'affondamento della ‘Rigel' della società maltese May Fair Shipping, sottonoleggiata a un broker scandinavo, che a sua volta aveva affittato la nave a un terzo broker e così via. Nel settembre 1997 caricano di candelotti il mercantile e lo affondano al largo di Capo Spartivento; uno degli angoli più suggestivi di Calabria, non lontano da dove le tartarughe Caretta Caretta si adagiano a nidificare in luglio, una tra le poche spiagge del Mediterraneo a poter assistere a questo rituale di vita, contaminata dalla morte. Morte dai carichi radioattivi, che venivano procurati dall'ingegnere-faccendiere Giorgio Comerio, padanissimo e immischiato anche nella vicenda di traffico di rifiuti nucleari verso le coste desolate somale, conclusosi con l'assassinio della giornalista Rai Ilaria Alpi e del tecnico Hrovatin. Solo uno, dei tanti casi che troverete in questo accurato racconto del primo martirio da scorie di un popolo intero, descritto in ogni suo risvolto: rifiuti tossici, scorie nucleari, materiali radioattivi, "che continuano a sparire in Italia - conclude Baldessarro - per andare dove non si sa. Forse i politici dovrebbero cercare di capirlo e spiegarlo "

Gli autori Manuela Iatì e Giuseppe Baldessarro sono delle mosche bianche nel panorama dell'informazione italiana del Duemila: hanno un'abitudine un po' demodé. Si sono fatti strada nel lavoro contando solo sul loro impegno e preparazione e senza santi in Paradiso. Ora ‘coprono' quella disgraziata regione per il maggiore network televisivo mondiale - lei- e per il maggiore quotidiano italiano - lui. Baldessarro sabato viene premiato come ‘Cronista dell'anno' per ‘'aver descritto nelle sue cronache la nuova mafia, più ricca e potente del mondo". Il riconoscimento intitolato a ‘Pippo Fava' gli verrà consegnato a Roseto degli Abruzzi. Chi legge questo libro non avrà risposte. Non leggerà tirate retoriche. Verrà posto di fronte a dei dubbi, a delle domande e sarà costretto a interrogarsi sul nostro Paese. Altra cosa fuori moda di questi tempi: vi chiederete, se deciderete di leggerlo, che Governo è quello che lascia che nella Valle del fiume Oliva in Calabria depositi di scorie nucleari, accertati da diversi rilevamenti e da carotaggi del terreno sulle sponde, senza che siano rimossi in un territorio che potrebbe essere un eden naturale, boschivo e senza industrie, dove ci sono cluster tumorali con incidenze maggiori che nella Seveso e nella Brianza del disastro della Diossina, negli anni '70. E questo Governo da sei mesi, quando furono scoperti i livelli degli isotopi radioattivi, anormali, non ha fatto nulla. Non un intervento, non una task force per rimuovere immediatamente i veleni che stanno facendo morire come mosche i calabresi. In questi tempi di Lega, ci sono terroni ancora più terroni degli altri terroni. Cosa importa se vivono tra la spazzatura nucleare?

27 maggio 2010

Un libro attacca Saviano. E si apre un caso a sinistra


MARIO PORQUEDDU PER IL CORRIERE DELLA SERA

Se a sinistra esisteva un tabù legato alla figura di Roberto Saviano, che impediva il levarsi di voci critiche contro di lui — perché l’antimafia è storicamente valore di sinistra o anche solo per opportunità e prudenza, considerato il suo enorme successo e la condizione di scrittore minacciato di morte dal clan dei Casalesi — se anzi, fino a ieri, la sinistra prendeva in automatico le sue difese quando da destra Saviano veniva attaccato, adesso quel tabù è infranto. Eccome.

Ci ha pensato Alessandro Dal Lago, sociologo dell’università di Genova, con un saggio pubblicato da manifestolibri: Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee. Sul fatto che autore ed editore appartengano al campo della sinistra non ci sono dubbi. E quella di Dal Lago è la più dura bocciatura di Gomorra letta finora. Argomentata, dotta, ricca di citazioni: un’esegesi dell’opera di Saviano, e anche del personaggio. «Una lettura assai critica», la chiama Dal Lago. Per usare un eufemismo. Non si salva quasi nulla: condannato lo stile, l’impianto narrativo, l’uso di una prima persona che è di volta in volta io-narrante, io-autore e io-reale, e la confusione che questo genera nel lettore, utile a un processo di identificazione totale fra chi scrive e il pubblico, e quindi alla nascita dell’«eroe-scrittore».

Altrettanto severo l’esame su quanto è accaduto dopo l’uscita di Gomorra e la sfida lanciata da Saviano ai boss nel settembre 2006 a Casal di Principe: perché da allora Saviano è diventato un simbolo, il cavaliere che si batte contro il Male, icona perfetta in un Paese dove — dice Dal Lago— grazie a un altro Cavaliere, molto di ciò che succede, e anche l’agenda politica, «è tradotto in chiave di contrapposizione simbolica». Insomma, Saviano (quasi) come Berlusconi? Nella società della comunicazione «il popolo esiste solo in quanto assiste, quando applaude lo spettacolo messo in scena». A quel punto, che si tratti di Porta a Porta o Anno Zero, di Berlusconi o Saviano, fa poca differenza. «Il popolo oggi è berlusconiano per definizione— scrive Dal Lago —. Perché apprezza le proposte politiche del Cavaliere e perché si riconosce nella cultura che egli ha creato». Ma di quella cultura anche Saviano è in qualche modo prodotto e artefice. Riassumendo: scrittore sopravvalutato, eroe di carta, portato alla semplificazione invece che a cimentarsi con la complessità, moralista, vanesio e nazional-mediale (evoluzione di nazional-popolare).

Di fronte a un pamphlet tanto urticante come reagisce la sinistra? «In Italia — dice Luciano Violante — ci sono più destre e più sinistre. Ne esiste una che fa dell’antisistema la propria carta d’identità. Una sinistra iconoclasta, che quando vede un’effigie, un simbolo, gli si scaglia contro. Ricordo gli attacchi a Caselli quando indagava sulle Br... Per me Saviano fa un lavoro di straordinaria importanza e la beatificazione laica della quale è oggetto credo dia fastidio anche a lui». Il filosofo Biagio de Giovanni, intervistato dal Corriere del Mezzogiorno che ha sollevato il caso-Dal Lago con un articolo del direttore Marco Demarco, va controcorrente: «Quello di Dal Lago è un atto liberatorio. Non sono in grado di condividerne la critica letteraria, però mi ha trasmesso un che di liberatorio rispetto al ruolo che Saviano si è dato di angelo vendicatore».

Ben vengano, dunque, le critiche a Saviano? Ritanna Armeni, giornalista, dice sì: «Ho firmato l’appello perché Casa Pound possa manifestare, figuriamoci se Dal Lago non deve dire ciò che pensa. Criticare è legittimo, e non credo che i pericoli che corre Saviano siano legati a chi critica i suoi lavori. Non facciamo di lui, che è scrittore emozionante e rappresenta lo spirito del tempo, un animale imbalsamato. Per il suo bene. E poi, se nessuno criticasse Saviano a sinistra, direbbero che la sinistra è stalinista...». Marco Travaglio difende il diritto di critica con un distinguo: «Tutti possiamo e dobbiamo essere criticati. Ma non sono d’accordo quando si accusa uno come Saviano di fare il martire. Provino gli altri a vivere sotto scorta a 29 anni. Cosa vuol dire che fa il martire? Certe espressioni denotano insofferenza per i successi altrui».

Nando Dalla Chiesa un po’ se l’aspettava: «È accaduto altre volte. Ed è normale. Quando si diventa molto popolari, quando imeccanismi mediatici premiano qualcuno magari in modo sproporzionato rispetto ai meriti di altri, c’è chi dissacra. È la società dello spettacolo. Mi spiace, perché credo che certi attacchi a Saviano servano a colpire il movimento antimafia. Magari non quelli di Dal lago, che però arrivano a poca distanza da altri di Fede o Libero ». E ancora: «Forse ora Saviano è un po’ prigioniero di quel che gli è successo, forse non immaginava le conseguenze profonde dell’andare a casa dei boss a insultarli. Uno come Falcone lo sapeva. Disse: io combatto i mafiosi, ma rispetto le persone». Certo, Falcone era lo Stato. Ruoli diversi. Ma anche Enrico Deaglio cita il magistrato ucciso: «Non scordiamo che fu accusato di essere prima donna». Poi provoca: «Chi critica Saviano provi a scrivere un libro sulla camorra, a fare di meglio. E se Saviano lasciasse Mondadori, manifestolibri lo pubblicherebbe o no?».

26 maggio 2010

Avviare un adeguato monitoraggio sulle elezioni regionali in Calabria. Interpellanza di Angela Napoli

Ai Ministri dell’Interno e della Giustizia:

Per sapere – Premesso che:

- lo svolgimento delle elezioni regionali in Calabria è stato preceduto da costanti richiami alla necessità sia di far rispettare a tutti i candidati il codice etico, approvato all’unanimità dalla Commissione Parlamentare Antimafia, sia di non avvalersi dei voti della ‘ndrangheta, sempre pronta a dirigere il proprio consenso per ottenere poi “favori” in cambio;

- per tutti i candidati, eletti e non, la Commissione Parlamentare Antimafia, dopo aver acquisito le notizie necessarie, farà adeguate valutazioni;

- nei giorni scorsi la stampa regionale calabrese ha riferito dei suffragi elettorali che la nota famiglia Tegano della ‘ndrangheta reggina avrebbe riservato sul candidato della lista “Federazione di Sinistra “nella circoscrizione di Reggio Calabria e provincia, Nino De Gaetano, consigliere regionale uscente e rieletto con 8.765 preferenze, delle quali ben 4.820 voti ottenuti nella sola Città di Reggio, quadruplicando addirittura le preferenze rispetto alla precedente tornata elettorale;

- a fare campagna elettorale per De Gaetano sarebbero stati in prima persona Bruno Tegano e la di lui moglie , donna che alcune settimane fa, davanti alla Questura, all’arresto del boss Giovanni Tegano (latitante da 17 anni e cognato della donna), ha urlato, vedendo uscire il boss in manette: “ è un uomo di pace”;

- sempre secondo fonti giornalistiche il consigliere Nino De Gaetano, che alla scorsa legislatura regionale calabrese ha anche avuto l’incarico di Presidente della Commissione Regionale Antimafia, oltre che dalla famiglia Tegano sarebbe stato elettoralmente aiutato anche da altre cosche della ‘ndrangheta reggina;

- la notizia dei voti mafiosi elargiti al Consigliere Regionale sembra sia nata dalla divulgazione di una lettera anonima che era stata sottovalutata dall’interrogante, ritenendo che il suo contenuto potesse rappresentare solo la volontà di offuscare l’immagine di un consigliere rieletto;

- l’allarme e la preoccupazione che, però, sulla notizia ha pervaso Rifondazione Comunista calabrese e lo stesso segretario nazionale, Paolo Ferrero, il quale si è affrettato a recarsi presso il Procuratore della DDA di Reggio Calabria, hanno imposto all’interrogante di chiedere, con il presente atto ispettivo, l’intervento dei Ministri competenti;

- gli uomini e le donne delle varie consorterie mafiose votano e fanno votare, così come sicuramente è avvenuto per l’ultima competizione regionale in Calabria, indirizzando il loro consenso anche su altri candidati del territorio regionale:

- se per le parti di competenza, non ritengano necessario ed urgente accertare se sono in atto adeguate indagini sulle elezioni regionali svoltesi in Calabria nell’ultima tornata, da parte della DDA di quella Regione;

- se il Ministro dell’interno non ritenga necessario ed urgente avviare un adeguato monitoraggio sulle candidature e sullo svolgimento delle elezioni regionali in Calabria;

- se non ritengano necessario ed urgente incoraggiare il Parlamento per il varo di norme legislative che, oltrepassando il vigente articolo 416 ter del c.p.p., possono individuare e colpire il “voto di scambio”.

On. Angela NAPOLI

Facci e il training autogeno di Repubblica


Filippo Facci per Libero

A proposito di prostata e di Berlusconi - visto che se ne parla. Non vedo il Cavaliere da molto tempo, ma nella mia memoria è stagliato il giorno in cui lo conobbi. Fu nel 1996, ad Arcore. Volle conoscermi lui. Mi dissero che era un tipo formale e mi consigliarono di agghindarmi di conseguenza. Mi parcheggiarono in una stanza piena di libri antichi, sinché, di lontano, vidi una sagoma bianca avvicinarsi alla porta-finestra: era lui in tuta da ginnastica, camminava piano, come dolente. Lo era. La prima parola che mi rivolse non fu «buongiorno», o «come va», o roba del genere. La frase fu precisamente questa: «Facci, Facci... non mi tira più l'uccello».

L'avevano appena operato alla prostata, appunto. Poi le cose - come il Paese sa - gli andarono a posto. Io comunque ricordo questo: che risi. Risi proprio come uno scemo: io sbarbato e con la cravatta - il nodo me l'ero fatto fare - e lui in tuta di acetato come un brianzolo domenicale. Era Berlusconi, lo stesso uomo che un giorno sarebbe stato applaudito alla Casa Bianca e sarebbe comunque passato alla Storia con modalità ancora tutte da decifrare.

Ricordo pure che in quei giorni, precisamente nel novembre 1996, Curzio Maltese scriveva su Repubblica: «Berlusconi è un politico finito, lo sanno tutti». Berlusconi c'è ancora.

25 maggio 2010

Pensieri sparsi sui nativi digitali neocivilizzati


Molti si chiedono come mai i giornali pratichino l'autocensura, o il perché alcune notizie non filtrino, o non siano opportunamente trattate e interpretate dalla carta stampata o dagli altri medium. Senza scomodare Noam Chomsky, una chiave di lettura sul peso dei poteri forti la fornisce Sono stati narcotizzati. Banche e imprenditori spendono cifre spropositate per acquisire giornali che non rendono. Perché? Ovvio: per garantirsi la tranquillità mentre si fanno gli affaracci loro. Pensi al Corriere, con 20 padroni che rappresentano il Gotha, anzi la gotta, del potere. Ma come fa il povero de Bortoli a tenere a bada tutti? Ti chiamano un Della Valle, un Montezemolo, un Bazoli, Ligresti di qua, Pesenti di là... Guardi che è dura, eh. Dei grandi, gli unici rimasti fuori sono Ferrero e Luxottica. Tutti gli altri hanno un piede dentro".
Internet in questo senso è una risrsa e può scompaginare il modo tradizionalmente verticale di fare informazione, di editare e proporre contenuti dal basso, dando importanza alla trasmissione virale. Nella diffusione delle news online va anche calcolato ciò che richeidono gli utenti. E forse allora si potrà spiegare perché il popolo italiano sia facilmente soggiogabile, in un panorama di sconfortante conformismo, dove le rilevazioni in termini di clic dettano l'agenda web, e più in generale il circolo massmediatico.

La 'ndrangheta nel racconto di Francesco Saverio Alessio


di Saskia Schumacher

gliitaliani.it


In Germania sei vissuto un bel po’. Molti italiani mi confessano di adorare il nostro “ordine tedesco” rispetto al caos che si vive e si respira nelle città italiane. In questo ordine la mafia ha costruito un impero di riciclaggio e di traffico di droga e armi. Raccontami il mio paese.

La Germania è punto di partenza iniziale ed indispensabile della strategia di conquista mondiale della ‘ndrangheta. Fra Est ed Ovest, Nord e Sud. Alla fine degli anni ottanta le ‘ndrine erano già ricchissime per via degli enormi introiti dovuti al traffico mondiale di cocaina.

Ci sono intercettazioni del 1989, mentre cade il muro di Berlino, dove il figlio di un boss, da Berlino Est, chiede al padre in Calabria, che cosa deve comprare ed il padre gli risponde di comprare tutto: «Tutto! Hai capito? Compra tutto!».

Alcune ‘ndrine acquistarono interi quartieri di Berlino, comprese le attività commerciali. Questo è solo un piccolo esempio. Molte sono le città “occupate” dalle ‘ndrine e la strage di Duisburg è la garanzia di questa occupazione; non si può commettere un crimine di quella portata nel centro di una città senza avere già un perfezionato sistema logistico in quel luogo.

Perché la Germania è un paese attraente per la ‘ndrangheta?

Il principale motivo per il quale conviene alle ‘ndrine di radicarsi in Germania – cosa che fanno da quarant’anni, ma che negli ultimi venti è molto aumentata – è la vostra legislazione; molto favorevole per i loro tipi di affari. Dalla impossibilità di fare intercettazioni in luoghi pubblici e privati, alla mancanza del reato di associazione mafiosa fino a quella di non avere severe normative antiriciclaggio. Inoltre essendo il vostro un Paese ancora ricco è molto facile per chi come loro ha fiumi di denaro liquido da riciclare fare buoni affari pagando regolarmente anche le tasse.

Pagano regolarmente le tasse?

Sì. Risultando come un ottimo cittadino. Onesto. Rimanendo all’interno delle regole ma dissanguando lentamente l’economia e conquistando terreno. Il maggiore pericolo resta comunque l’indifferenza della gente. Come mi disse in un’intervista il prof. Enzo Guidotto – presidente dell’Osservatorio Veneto sul fenomeno mafioso ed autore dello storico libro Mafia – riferendosi al Nord dell’Italia ma che potrebbe benissimo essere la descrizione della Germania contemporanea: «Qua c’è l’indifferenza dovuta alla convinzione che il fenomeno si sviluppi soltanto nel Sud. Nel Sud l’indifferenza è dovuta alla atavica delusione, che si trasforma in rassegnazione e quindi in indifferenza rispetto a ciò che succede.»

Anche dopo la strage di Duisburg il mio paese non si è svegliato…

In Germania sono ancora convinti che la ‘ndrangheta, la camorra, la mafia, la sacra corona unita, siano parte del folklore delle regioni del Meridione d’Italia. Sfugge a molti, anche addetti ai lavori, inquirenti, giornalisti, storici, come queste organizzazioni criminali siano divenute holding globali grazie proprio a Paesi come il loro. Bisognerebbe stabilire quanto di quello che appare come indifferenza sia invece complice e cosciente depistaggio; quanto ci sia già di corrotto nella politica, nell’amministrazione, nelle forze di polizia e nella magistratura.

La versione tedesca del libro «Santa Mafia» di Petra Reski contiene alcuni passi censurati e coperti di nero. E’ questo l’inferno per uno scrittore?

E’ come un urlo che cerca di spezzare l’omertà, soffocato nel nero del libro. Petra Reski riassume la sua storia giudiziaria nell’articolo «Bringt mich doch um, ihr Scheißkerle» («Die Zeit» 28 gennaio 2010, tradotto e presente su molti blog come «Allora uccidetemi pezzi di merda», n.d.r.), dedicato ai giornalisti e scrittori che rischiano la loro vita perché scrivono delle mafie. In Germania peggio che in Italia se si scrive di mafie ti vengono assassinate le idee legalmente. Ti cancellano parti di libri anche ben documentate.

Parlami dei media e giornali calabresi.

Per i disastri tipici calabresi ti accenno soltanto ad uno dei principali quotidiani calabresi, l’emblema della stampa mercenaria in Calabria: «Calabria Ora» quotidiano nato ufficialmente nel marzo 2006. Specializzato in attacchi mirati, come quello lunghissimo a Luigi de Magistris, o a far finta che alcuni fatti o persone non esistano. Il direttore Paolo Pollichieni meriterebbe un libro a lui interamente dedicato a proposito dei suoi amici nelle istituzioni e dei suoi particolari contatti telefonici, con militari, magistrati, politici e massoni di cui si trova documentazione accurata nel libro di Edoardo Montolli «Il caso Genchi».

La stampa è collusa?

Il 9 febbraio 2010 la Corte d’Appello di Catanzaro ha aumentato la pena inflitta in primo grado a Pietro Citrigno, editore del giornale «Calabria Ora», condannandolo alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione, al pagamento di 10 mila euro di multa e al risarcimento alle parti civili. Ed il suo direttore Paolo Pollichieni nascose la notizia. Il giornalista Pietro Gerace nell’articolo Citrigno condannato anche in secondo grado trae questa conclusione: «Quale informazione libera e senza padroni potrà mai garantire un quotidiano che ha il suo Editore condannato a 4 anni ed 8 mesi per usura?»

Dall’altro lato ci sono molti cronisti seri che con grandi difficoltà, con poca visibilità e rischiando anche personalmente continuano dignitosamente a fare il loro lavoro. Innumerevoli le intimidazioni, le minacce, gli attentati. Ad esempio recentemente al giornalista Antonino Monteleone hanno bruciato l’automobile sotto casa, quasi davanti ai suoi occhi.

Nel tuo nuovo libro dipingi la bellezza di Fiore in Calabria, i colori delle sue primavere e la libertà in cui sei cresciuto. E poi prendi il lettore per mano e cammini con lui verso l’orlo del precipizio. Avresti potuto scrivere un libro di viaggio, invece hai scritto un libro furente contro la ‘ndrangheta…

Ho un approccio poetico alla realtà; profondamente umanistico. Amo la bellezza e detesto il brutto. Il mostro del consumismo globale ha dato via libera all’imporsi dello strapotere delle mafie; perfettamente aderenti per i loro scopi criminali a tale tipo di sistema politico, economico, esistenziale. Addirittura le mafie si sono infiltrate e sovrapposte a questo sistema.

Il risultato, come sofferenza economica, culturale, artistica, l’inquinamento, i disastri paesaggistici ed ambientali, la qualità della vita insomma, è decisamente brutto. A tratti disumano. Animalesco. Si punta all’autodistruzione e comunque ad un rapporto compulsivo con la realtà che conduce all’insoddisfazione perpetua dell’essere umano. Io sono furente contro il brutto che ci sovrasta e quindi scrivo di questo; della mia rabbia contro la ‘ndrangheta.

Non è il tuo primo libro. Assieme a Emiliano Morrone hai scritto «La società sparente». Cosa significa questo titolo?

Innanzitutto un gioco di parole sul titolo di un importante libro «La società trasparente» di Gianni Vattimo che è l’autore di una delle due prefazioni al nostro libro. Il titolo vuole essere un grido d’allarme su di un fenomeno che sembra non interessare molto l’opinione pubblica: cioè che la società calabrese “sana” sta sparendo per vari motivi.

Quali?

Quello principale è rappresentato dall’emigrazione di massa. Questa sparizione – oggettiva, di persone e di idee – conforma un vuoto sociale nel quale si inserisce con maggior forza e violenza il potere e la cultura della ‘ndrangheta; vuota, bieca, crudele. Disinteressata cinicamente al vero benessere della popolazione. Interessata ossessivamente solo al denaro e al potere.

L’inevitabile processo di perdita identitaria, collettiva ed individuale, che ne consegue è rafforzato dalla mirata e barbara distruzione dei segni della storia e della tradizione operata per decenni dalle amministrazioni e dai politici di ogni tipo e grado.

Tutto questo va poi sommato all’orrifico effetto della inarrestabile speculazione edilizia che continua a produrre sempre più bruttezza; che devasta il territorio, produce frane e smottamenti, uccide la poesia. Un odio incontrollato contro il bello è marchio di fabbrica del potere calabrese. Le architetture riflettono il rapporto con la realtà dei calabresi.

Le case, orribili e incompiute all’esterno, verso la città, sono spesso lussuosissime all’interno, verso la famiglia. Come le ostriche, quasi informi, ruvide e dure all’esterno, e molli e gustose all’interno. Abitazioni quindi che esprimono più il modo di essere di molluschi individualisti e asociali che non di esseri umani. Lì è tutto chiuso in un guscio orripilante.

…E’ un libro di ribellione e di riscatto.

«La società sparente» in effetti è la storia dei tre anni passati a lottare a denti stretti nella nostra San Giovanni in Fiore per tentare una emancipazione individuale e collettiva. Poi della fuga di Emiliano Morrone nel 2005 e del mio insistere a vivere a San Giovanni in Fiore ancora un po’. Traccia anche una mappa del potere calabrese dando largo spazio all’analisi dei metodi di indottrinamento dei giovani e della costruzione del consenso elettorale. In Calabria devi “appartenere” a qualcuno. Altrimenti sei “sparente”.

Sei dovuto fuggire dopo la pubblicazione del libro. Ha cambiato la tua vita?

Nei momenti di sconforto ho spesso visioni catastrofiche o apocalittiche della realtà. Avere quindi fisicamente un libro in mano – carta stampata, l’odore della tipografia – che riassumesse tutto quel lavoro mi diede immediatamente una sensazione di maggiore solidità. Di presenza effettiva nella storia del pensiero, almeno della mia terra.

Non mi interessava quanto o meno fosse importante questa presenza. Mi piaceva avere la sensazione di “esserci”, di partecipare. Fu bellissimo vederlo nella sezione saggi delle librerie. Durò pochissimo. Poco dopo la pubblicazione iniziarono con le calunnie e gli insulti; fecero persino dei fumetti su di noi due. Poi le intimidazioni, le minacce, le querele e addirittura una richiesta di sequestro del libro.

Quindi una onda vi ha travolto?

Sì, nello spazio di poche settimane fummo quasi sommersi dai problemi. E’ naturale che controbattere ad un attacco condotto da un fronte comune di politici collusi, ‘ndranghetisti e massoni, teso a screditare il libro ed i suoi autori, comporta un cambiamento della propria esistenza. Specialmente se non hai molto denaro a disposizione. Se non hai una grande visibilità. Se sei precario militante sulle montagne della Sila.

Poi ti devi guardare le spalle. Eravamo già allenati da tempo a lottare a testa alta ed insieme abbiamo affrontato la tempesta anche se oggi risentiamo ancora delle conseguenze. Superata la vera e propria bufera le reazioni al contenuto del libro – così forti e diffuse – mi hanno ridato soddisfazione e convinzione; pensai che avevamo colpito forte nel segno. Compresi che un libro può far molto male al potere. Questo pensiero mi spinge ancora adesso ad insistere nel descrivere la mia terra.

In che momento hai realizzato che dovevi fuggire dalla Calabria?

Quando dopo numerosi segnali, intimidazioni e minacce, una persona mi disse chiaramente che qualcuno voleva uccidermi. Da quelle parti sono abituati a farlo. Normale routine. Poi dopo averti ucciso, non a caso ma con un preciso linguaggio, il tuo corpo lo lasciano semplicemente lì, oppure lo bruciano, lo sciolgono nell’acido, lo danno da mangiare a dei maiali.

Se ci tieni alla pelle, sei completamente solo e senza alcun mezzo, ti conviene seguire il consiglio di sparire fuggendo. Alcune persone restano comunque e spesso spariscono in altro modo. Come tanti altri scelsi la fuga e l’esilio per sparire. Preferisco continuare a scrivere anche se da lontano.

In Calabria, non avevo più il permesso di vivere da parte dei feudatari citati più volte nel libro. Deciso il mio annientamento o la mia cacciata dalla massopolindrangheta, come con un neologismo Roberto Galullo definisce quella schifosa congerie di gente comune, santisti, ‘ndranghestisti, politici e massoni che divora la Calabria e non solo quella. Che fa sparire le inchieste e seppellisce processi, che spoglia la popolazione di ogni risorsa pubblica, che uccide e divora ogni cosa. Tutto. Soprattutto la dignità dell’essere umano.

Riscriveresti il libro, nonostante tutto?

Senza alcun dubbio; è stata l’esperienza più intensa della mia vita. Forse lo renderei più corrosivo; sono più disilluso di allora, eppure sono passati meno di tre anni… Il sentimento più forte, il desiderio di libertà, prevale ed impone di indicare a chi non si accorge della mostruosità della ‘ndrangheta che lo avvolge silenziosamente nelle sue spire; urlare alcune cose a chi farebbe ancora in tempo a liberarsene prima che ne diventi schiava come la Calabria. E quindi si scrive anche di Buccinasco, Milano, Verona, Amsterdam, Duisburg, Berlino…

Oggi qual è il tuo sogno più grande?

Come sogno personale e immediato poter vivere di quello che scrivo in un luogo caldo e civile lontano dall’Italia. Anche freddo, come la tua Germania, ma almeno civile. Come sogno veramende grande, politico e spirituale, contribuire alla “decrescita serena”, consapevole che sia l’unica soluzione che ci possa far emancipare in una società economicamente equa, il che consentirà di coltivare al meglio l’arte e la cultura di tutti i popoli. Il sogno è vivere in una società in cui gli esseri umani coltivino soprattutto, come scrive Vattimo, la solidarietà, la carità e l’ironia.

Mi permetti un’ultima domanda, anche molto personale?

Certo…

Birra italiana o birra tedesca?

Naturalmente tedesca! Birra tedesca e vino italiano, anche se devo dire che nella zona di quella meravigliosa piccola città che è Freiburg, i vini del Kaiserstuhl e della bassa valle del Kinzig non sono affatto male….

23 maggio 2010

I POSTI DEL CUORE


Mimmo Calopresti, da Traveller

La mia è la classica famiglia calabrese, padre, madre e quattro figli, che neglia anni '50 emigra a Torino. Mio padre faceva il sarto, ma poi ha pensato che un posto sicuro fosse la scelta migliore ed è entrato nella grande fabbrica, la Fiat. Quando in agosto i cancelli chiudevano, partivamo tutti in auto: direzione Polistena, il mio paese. Ricordo quei viaggi come delle avventure. Avevo sei anni e il mio mare era quello di Palmi, Nicotera, Capo Vaticano. I miei insieme ad altre famiglie affittavano le case dei pescatori, a ridosso della spiaggia. E casa, spiaggia e mare erano uno straordinario tutt'uno. All'alba, i pescatori spingevano le barche sul bagnasciuga e mio padre li aiutava a tirare le reti. Ho visto l'Oceano Indiano e i Caraibi, ma continuo a pensare che il mare della Calabria sia il più bello di tutti. Forse perchè è la mia infanzia, il mio background. Negli anni ho percorso la costa tirrenica da nord a sud fino a Scilla. E quella ionica, ancora più selvaggia da Capo Rizzuto, una delle aree protette più affascinanti del Mediterraneo, passando per Capo Colonna, con la splendida colonna del Tempio di Hera. Lì ogni anno c'è una festa incredibile: si attende l'alba tra esibizioni di musica classica e pop. A Le Castella, vicino Crotone, ho recitato un testo di Enzo Siciliano sull'incontro di Ulisse con il ciclope. All'aperto, accompagnato dal rumore delle onde, mi sembrava davvero che la nave di Ulisse potesse arrivare. E due anni fa in agosto al Roccella jazz festival, ho di nuovo recitato dei brani dell'Odissea sulle note della fisarmonica di Richard Galliano. A Diamante, invece ho girato L'abbuffata. E' al centro della Riviera dei Cedri, e la chiamano la Perla del Tirreno. Era novembre ed è arrivato Gerard Depardieu: si è subito precipitato in spiaggia e insieme ci siamo tuffati in quelle acque tiepide e profonde. Ma nonostante il clima, la storia, la bellezza, mi rendo conto che la Calabria non riesce ad avere lo sprint per farsi conoscere a livello internazionale: rimane sempre circoscritta, un po' chiusa su se stessa. Peccato, perché è ricca di suggestioni. Tropea è splendida: una volta sono stato premiato al Film Festival che c'è in agosto, una rassegna interessante con film da tutto il mondo. Ma quello che amo fare lì, è camminare sul lungomare e prendermi una granita. Sono una persona semplice, mi basta davvero poco per stare bene. Ma, lo ammetto, è soprattutto in Calabria, dove mi sento a casa, che mi capita. Tropea, come molti altri paesi, ha conservato il suo carattere antico, lo ritrovo nei visi, nelle case e nei profumi. In fondo al paese c'è una terrazza a picco sul mare che mi lascia senza fiato. Qualche mese fa ero lì con in braccio mia figlia Clio e ho pensato che probabilmente è il suo mistero che mi attrae: sì, fi fronte a quell'incredibile distesa d'acqua, resto sempre incantato.

18 maggio 2010

Quando le cosche condannarono il dirigente del Pci Giuseppe Valarioti



Il giovane professore di lettere di Rosarno fu assassinato nella notte del 10 giugno 1980

di Filippo Veltri
Fu un giugno drammatico quello del 1980 in Calabria. Un giugno di sangue e di fuoco. Due dirigenti del Pci assassinati dalla mafia nell'arco di due settimane, uno nella piana di Gioia Tauro e l'altro sul Tirreno cosentino. Si chiamavano Giuseppe Valarioti e Giannino Losardo.
Io c'ero. Cronista per conto dell'Unità delle due esecuzioni mafiose, dei movimenti successivi, di quello che non accadde dopo, delle ingiustizie e delle giustizie negate soprattutto. Delle verità nascoste, oscurate.
È la notte tra il 10 e l'11 giugno del 1980 e Giuseppe Valarioti, giovane professore di lettere con la passione per l'archeologia e la tessera del Pci di Rosarno in tasca (è il segretario di sezione) è al ristorante con i compagni. Il partito ha vinto le amministrative e c'è da festeggiare. Finita la cena esce dal locale, arriva una pioggia di fuoco: Peppe Valarioti muore tra le braccia del suo compagno (e padre politico) Peppino Lavorato. Aveva 30 anni. È la conclusione drammatica di settimane ad alta tensione, di minacce e intimidazioni, miste ad entusiasmo e, a volte, incoscienza. Si va avanti, anche se di notte gli 'ndranghetisti tentano di incendiare la sezione del partito e distruggono le auto dei militanti. Anche se i manifesti elettorali vengono capovolti. Non strappati o coperti, capovolti. Non è la stessa cosa. Il Pci para i colpi: comizi e manifestazioni, volantinaggi e porta a porta.
Dopo la sconfitta elettorale del 1979 il Pci non si può permettere di perdere ancora. Le cosche però non possono accettare che si parli apertamente dei loro traffici e affari. Peppe e Peppino, i compagni della sezione, lo sanno e vanno avanti: condannano i tentativi della mafia di controllare le cooperative agricole, difendono il territorio dalla 'ndrangheta, dalla speculazione edilizia e dalle infiltrazioni. Peppe è un passo avanti agli altri e non smorza i toni nonostante i compagni di partito, i parenti, la fidanzata gli chiedano prudenza...
... Vince il Pci, gli uomini dei clan non vengono eletti. La 'ndrangheta reagisce e lo uccide. Durante la festa, perché sia chiaro per tutti.
Peppino Lavorato terrà aperta la sezione del Pci di Rosarno. E dieci anni dopo diventerà sindaco del paese. Nel nome di Valarioti. Che non ha avuto giustizia.
Ma Valarioti non diventò subito un simbolo. Per il suo omicidio – chiaro, per chi voleva vedere, fin dalle primissime battute – furono scomodate vendette interne al movimento, agitati confusi moventi. Il vero è che durante la gestione di Valarioti, il Pci avviò una campagna di moralizzazione interna, soprattutto nella cooperativa Rinascita, che era collaterale al partito. Come in tutta l'Italia meridionale, le cooperative agricole erano spesso obiettivi sensibili e la 'ndrangheta puntava a drenare i sussidi europei e nazionali garantiti ai produttori. Per negligenza, perché corrotti, perché ingenui o semplicemente per paura, alcuni dirigenti della Rinascita (che saranno sospesi e poi espulsi, non appena le indagini chiariranno le loro posizioni) non avrebbero arginato i tentativi di inquinamento portati avanti dalle cosche rosarnesi. Un punto di discussione questo che restò aperto per anni, dentro il Pci e la Lega delle Cooperative.
Valarioti certamente provò a invertire la rotta. Un tentativo che lo espose notevolmente. Nonostante la gran parte del partito seguisse il segretario cittadino nel nuovo corso politico, all'esterno Peppe figurava, infatti, come elemento centrale dell'attacco alla 'ndrangheta, nel bene e nel male.

16 maggio 2010

Il cadavere di Milano

di Massimo Fini

Su iniziativa del Corriere della Sera una cinquantina di personaggi milanesi si sono fatti promotori di un “Manifesto per Milano”, fallacianamente ribattezzato “il coraggio e l’orgoglio”, per rivitalizzare la città. Mission Impossible. Perché non si può ridar vita a un cadavere. Solo Cristo c’è riuscito. Milano era una città interclassista. Quartieri molto centrali come il Garibaldi e Brera erano quartieri popolari dove Pirelli abitava accanto al suo operaio, naturalmente in una casa di Caccia Dominioni il primo, in una di ringhiera l’altro. Questo cortocircuito fra ceti diversi fecondava la città, la rendeva viva, umanamente e culturalmente. Milano ha cominciato a morire negli anni del dopo boom quando i ceti popolari sono stati cacciati dalla città e relegati nel mostruoso hinterland, che in direzione nord si estende fin quasi ai laghi, dove i paesi son solo dei nomi ma non hanno una piazza, un luogo di ritrovo e a volte nemmeno una chiesa.

La gente dell’hinterland invade la città la mattina e si chiude negli uffici, la sera ritorna a dormire nell’enorme ghetto. E di sera Milano, a parte alcuni luoghi deputati e sempre più falsi, è deserta. La città, a differenza di Roma, non è vissuta dai suoi abitanti. Il motivo è semplice. La gente del popolo aveva l’abitudine, la sera, di scendere al bar a fare quattro chiacchiere, a giocare a scopone, al biliardo, a boccette e, nel retrobottega, a poker. I ricchi e i benestanti rimasti in città questo non lo fanno. La sera si rinchiudono nelle loro belle case, che sempre più somigliano a fortini, a guardare la televisione e nel weekend vanno a Gstaad, a St. Moritz, a Cortina. I più avvertiti e quelli che se lo possono permettere, avendo capito l’antifona, conservano a Milano la casa di rappresentanza, ma vivono sulle colline del Piemonte ligure, 45 minuti da Milano in autostrada.

Girare a Milano di sera è desolante, sembra di stare in un quadro metafisico di De Chirico, dopo le undici ci saranno sì e no tre tabaccai aperti. Dopo le 2 i ristoranti chiudono per legge, ne rimangono aperti solo un paio clandestinamente, uno, non a caso, attaccato a San Vittore. Ma non è che di giorno vada meglio. A Milano, città commerciale oltre che industriale, c’erano una miriade di botteghe artigiane, mercerie, drogherie, falegnamerie, ferramenta che a poco a poco sono state sostituite da banche, da uffici, da asettici negozi high tech, da megastore di Armani. Se uno ha bisogno di un martello non può scendere in strada e trovarlo nel suo quartiere, deve cercarlo su Internet. A Milano i quartieri non esistono più, a parte alcuni, come viale Padova, un tempo vivaci e allegri e oggi occupati dalla violenza dell’immigrazione.

Un tempo le case editrici stavano in centro e Milano era una città di caffè dove gli intellettuali, gli artisti, i giornalisti si incontravano e venivano in contatto col resto della cittadinanza. Oggi la Rizzoli sta a Crescenzago, la Mondadori a Segrate, la Bompiani nell’ultra periferica Via Mecenate. I pochi intellettuali si sono trasformati in funzionari di casa editrice e la sera tornano a casa, a guardare la tv. A Milano c'era una borghesia colta, dei Pirelli, dei Crespi, dei Mondadori, dei Rizzoli, che dava il tono alla città. Questa borghesia non esiste più, sostituita da un ceto medio ricco ma indifferenziato che riproduce solo la propria volgarità e assenza di cultura che non sia la subcultura televisiva e del gossip.

Una mia amica di Verona dice spiritosamente: “Ma quando lavorano i milanesi, che son sempre in macchina?”. Purtroppo lavorano e stanno in macchina, senza avere mai un po’ di tempo per se stessi. Milano è diventata il prototipo italiano dell’Ipermodernità, un frenetico “fare per il fare” privo di senso, di freschezza, di allegria, di divertimento che non sia drogato e nevrotico. Una città invivibile da cui chi può fugge.

14 maggio 2010

Un "Cattelan" venduto all'asta per 8 milioni di euro



Non ha un titolo l’opera di Maurizio Cattelan, autoritratto che sbuca dal pavimento, ma ha un record lo ha ottenuto, quello del più caro artista italiano vivente: 7,92 milioni di dollari più diritti d’asta. E' stata battuta da Sotheby's per questa cifra folle, che farà ancora inferocire i detrattori dell'artista. L’installazione fu presentata nel 2001.

12 maggio 2010

Calabria 2010. La `ndrangheta fa politica, l'antimafia no

Antonello Mangano, tratto da terrelibere.org

Dai fatti di Rosarno fino alla manifestazione in favore del boss Tegano, la ‘ndrangheta ha ragionato e agito in termini politici, provando a porre rimedio a situazioni sfavorevoli (nel primo caso, la reattività degli africani alle violenze; nel secondo l’azione repressiva di polizia e magistrati mai così vigorosa). Tutti gli altri calabresi, invece, sembrano intrappolati dalla paura di essere giudicati negativamente dall’opinione pubblica nazionale. Una gabbia antica, da cui bisogna uscire.

“Un distendersi delle dune gialle, Cutro. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western”. Nell’estate del 1959 Pier Paolo Pasolini percorre la costa italiana al volante di una millecento per realizzare un reportage commissionato dalla rivista “Successo”. L’amministrazione comunale del paese crotonese presentò querela alla Procura di Milano: “La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro sono stati evidentemente e gravemente calpestati [...]. Le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate da centinaia di case linde, policrome, gaie […]. Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte, e non scrivendo articoli diffamatori contro i propri fratelli, contro gli italiani”. Spesso i calabresi sono troppo permalosi. In quell’occasione, infatti, Pasolini voleva celebrare - coerentemente con la propria ideologia - una terra fuori dalla storia e offesa dalla modernità, ma fu colto solamente l’accostamento – ritenuto offensivo - col continente africano.

Parla male di noi
A volte lo stesso meccanismo può produrre risultati grotteschi: “Dopo la liberazione di Cesare Casella alcuni bambini di San Luca lo vedono parlare con durezza alla tv dei suoi sequestratori e commentano: ‘Parla male di noi che siamo andati tante volte a fargli la spesa al supermercato’”, scrive Corrado Stajano sul Corriere della Sera del 20 febbraio 1992. A Reggio tutti ricordano ancora con sdegno la gaffe della BBC che depositò siringhe sul corso Garibaldi per filmare un degrado immaginario. E’ invece stata collettivamente rimossa la guerra da circa mille morti - nessuno conosce il numero esatto - che dal 1985 al 1991 produsse ferite inguaribili.
Sono solo alcuni episodi di una lunga serie che arriva fino a Curzio Maltese e Antonello Venditti: il primo scrisse un realistico reportage per Repubblica decorandolo con una sciocchezza (“;A Reggio un abitante su due è coinvolto in attività criminali”), il secondo disse durante un concerto in Sicilia “Ma perché Dio ha creato la Calabria?”, sottovalutando i cellulari di nuova generazione e il potere di diffusione di YouTube. Le reazioni furono furiose. L’ultima tappa della lunga serie di confronti-sconti tra calabresi ed esterni, presunti denigrati e subdoli denigratori è la manifestazione reggina a favore di Giovanni Tegano, latitante di rilievo, ultimo dei grandi boss comodamente nascosti nella propria città. E’ il 27 aprile. Una piccola folla si raduna di fronte alla Questura, lanciando slogan e ritmando applausi. La tensione si taglia col coltello. Un cordone di polizia tiene ai margini della strada parenti, affiliati, simpatizzanti.

Ancora una volta l’interpretazione prevalente si cristallizza all’immagine della città danneggiata più o meno volutamente dai media nazionali, che avrebbero evidenziato troppo l’episodio, o comunque lo avrebbero raccontato male. Non sembra che passi il tempo in Calabria, dal 1959 a oggi. Il problema è sempre difendere un’immagine inesistente e mantenere inalterata la realtà. Gli enti locali hanno speso cifre consistenti in campagne pubblicitarie (da quella enigmatica di Oliviero Toscani – “Incivile? Sì, sono calabrese” - fino alla sponsorizzazione della nazionale di calcio) che non hanno spostato di una virgola l’idea di “terra perduta” che prevale nel resto d’Italia.

Una miscela
Paradossalmente, la ‘ndrangheta è l’unico soggetto che è uscito da questa logica. Ha deciso di intervenire pubblicamente (nei disordini di Rosarno come nella manifestazione a favore di Tegano) decidendo che l’azione politica è più importante del risvolto mediatico. Lo ha capito la mafia, non ci è ancora arrivata l’antimafia.

Cavalcare la rivolta di Rosarno (la caccia al nero e la conseguente pulizia etnica del gennaio 2010) è servito a reprimere militarmente un elemento di disturbo e di progresso rispetto a un contesto sociale che per molti è quello della povertà e dello sfruttamento, ma per altri significa potere e denaro. Gli africani che facevano la fila per testimoniare di fronte alla caserma dei carabinieri, che scendevano in piazza contro la violenza mafiosa (lo avevano già fatto nel dicembre 2008) erano diventanti un potenziale pericoloso esempio da seguire per una popolazione mestamente assuefatta al sangue e all’ingiustizia. Come al tempo della rivolta di Reggio del 1970, si è ricreata a Rosarno quella miscela di estrema destra (basta leggere i comunicati di Casa Pound, La Destra e Forza Nuova identici a quelli dei comitati di cittadini), ‘ndrangheta e brava gente che diventa feroce grazie a una esasperazione indotta toccando i tasti giusti (le case devastate e le donne aggredite, come quarant’anni prima lo scippo del capoluogo a favore di Catanzaro).

Il tifo e la pace

I parenti e i sodali di Tegano non avevano alcun motivo per andare di fronte alla Questura inscenando quella farsa tragicomica. “Non sanno quello che dicono”, si è commentato dopo le urla “Giovanni uomo di pace” scandite tra i due marciapiedi del corso Garibaldi. E invece lo sapevano benissimo: uomo di pace, nel linguaggio mafioso, vuol dire banalmente garante di equilibri, come già notato dai giornalisti reggini Giusva Branca e Antonino Monteleone. Cari giudici e poliziotti, hanno voluto dire, prima di voi e degli arresti che hanno portato in carcere i capi delle famiglie storiche (Condello, De Stefano etc.) noi stavamo in pace (pace a Reggio vuol dire non troppi omicidi, pochi negozi che saltano, qualche automobile incendiata). Se le strade torneranno a sporcarsi di sangue sarà colpa vostra. Fermatevi dunque. Anche una frase apparentemente senza senso (“Con queste cose traumatizzate i ragazzi”) potrebbe significare che una manovalanza senza punti di riferimento non è controllabile.

La società civile reggina – il giorno dopo – organizzava una contromanifestazione assolutamente valida e necessaria, anche se pensata come risposta ai media nazionali, per contrapporre a una minoranza filomafiosa una maggioranza eticamente presentabile e che “tifa” dalla parte giusta. Una concezione puramente teatrale e non politica della questione. I pochi che si discostano da questa mentalità sono i magistrati: “Nella ‘ndrangheta solo i capi si arricchiscono davvero”, afferma il procuratore Pignatone. “Bisogna far capire ai nostri giovani che, oltre ai motivi etici e morali, affiliarsi o avvicinarsi al mondo della criminalità non conviene neanche a livello economico. Non vale proprio la pena di rischiare di rovinarsi la vita per poche centinaia di euro al mese”.

Non è stato sempre così. In passato la lotta alla mafia condotta dal PCI era affiancata da quella – propositiva – per il lavoro e lo sviluppo. Ai giovani era proposto un percorso coerente e un’alternativa migliore rispetto a quella di essere “telegenici”.

11 maggio 2010

Piccole trote al Pirellone



La Trota nel mare della politica. Dopo un breve apprendistato, l'esperienza di Renzo Bossi, figlio di cotanto padre, ha inizio con il debutto al consiglio regionale della Lombardia.

Preceduto da alcune dichiarazioni pirotecniche (il gioco osceno "Rimbalza il clandestino" su Facebook e la denuncia nei confronti di un blog che ha pubblicato il suo diario segreto hanno fatto il giro del mondo web). "Non tiferò Italia ai Mondiali", ha dichiarato ultimamente con la sicumera tipica dei padani.

Lo spirito è quello del rientro dalle vacanze settembrine per i liceali, come ha ammesso il rampollo del Senatur: "Sarà come il primo giorno di scuola". Una gaffe involontaria visto che è stato bocciato tre volte all'esame di maturità.

10 maggio 2010

Emilio Fede infanga Saviano



"Ci sono state polemiche anche su Roberto Saviano ... sempre lui ... ma non è lui che ha scoperto la lotta alla Camorra, non è lui il solo che l'ha denunciata, ci sono registi e giornalisti come lui ... e che sono morti ... lui invece è ancora protetto, superprotetto ... però non se ne può più ... di sentire che lui è l'eroe ... qualcuno gli ha pure offerto la cittadinanza onoraria ... di che cosa? non si capisce, ha scritto libri sulla Camorra, e l'ha fatto tanta altra gente, senza andare sulle prime pagine, senza fare tanto clamore ... senza rompere ... ehm senza disturbare la riflessione della gente ... un Paese come il nostro è Contro la Mafia, non c'è bisogno che ci sia Roberto Saviano".

07 maggio 2010

Andate a farvi fottere

Nella scena cult sottostante la madre dei tanti "vaffa" repressi della sinistra, tornati prepotentemente di moda nello scontro televisivo di Baffino D'Alema con il condirettore de Il Giornale" Alessandro Sallusti, uno della setta dei manganellatori di professione (i Belpietro, i Porro) che marca stretto l'avversario politico e mira all'eliminazione dialettica dell'interlocutore. Il problema per loro è il vizio d'origine, rinfacciato costantemente: il conflitto d'interessi, meno visibile nel caso di altri pennivendoli.

Oggettivamente D'Alema, che ha perso il controllo piuttosto banalmente e pretstuosamente, rivolgendo un insulto gratuito al giornalista e ricorrendo alla classica argomentazione di essere sul libro paga del premier, di fronte alla provoca-equazione "tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera" era il soggetto meno indicato da mandare in trasmissione per difendere la presunta superiorità morale del Partito Democratico, coinvolto com'era nella vicenda Affittopoli. Ma sono arcani i disegni che persegue il Pd sulla comunicazione, fin dai temp di Waterloo Veltroni.

02 maggio 2010

Finocchi freschi



di don Luigi Ciotti

Quella che serve è una freschezza di prospettive, speranze, responsabilità. La Calabria è la terza regione, dopo Sicilia e Campania, per numero di beni immobili confiscati alle organizzazioni mafiose. Sono in tutto 1.352, di cui circa sessanta in provincia di Crotone. Numeri che si prestano a una doppia lettura: da un lato raccontano di una penetrazione profonda della criminalità nel tessuto economico e sociale di queste terre; dall’altro, rappresentano un’immensa opportunità di riscatto. Fresco vuol dire sano. Fresco di legalità perché:

- Qui si coltiveranno prodotti “non avariati” dalle contaminazioni criminali, da tutto quel sistema di interessi, corruzione, connivenze che fanno “marcire alla radice l’economia dei territori, impedendole di svilupparsi.
- Sono prodotti frutto della collaborazione fra istituzioni, magistratura, forze di polizia e le energie sane e “fresche” della società: i giovani, gli imprenditori impegnati nella produzione biologica, le
associazioni unite per dare futuro a queste terre.
- Il loro gusto fa tornare in mente le parole di Paolo Borsellino, quando descriveva «la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

Finocchi per non farsi “infinocchiare” L’espressione “farsi infinocchiare” deriva dal fatto che il gusto del finocchio tende ad alterare gli altri sapori, e per questo pare fosse usato in passato per ingannare i clienti delle osterie: dopo aver servito loro del finocchio, si versavano vini scadenti come se fossero pregiati. I finocchi di Libera sono diversi. Sono “amici” della verità, della genuinità, dei diritti e della dignità delle persone. Sono sinceri perché trasparente è tutto il percorso produttivo. Dalla restituzione delle terre alla collettività al bando pubblico grazie al quale nascerà la cooperativa, fino alla scelta dell’agricoltura biologica con i suoi metodi certificati. Il gusto di questi finocchi non nasconde, ma al contrario rivela tante cose:

- L’importanza del lavoro sui beni confiscati, segno concreto che uscire dall’illegalità è insieme possibile e conveniente.
- Il valore del “noi”, del contributo che tutti possono e devono dare per realizzare questo cambiamento.
- Il fatto che chi semina poi raccoglie i frutti del suo impegno, malgrado le difficoltà, gli ostacoli, le fatiche. Non tutto si può “digerire” Il finocchio ha molte proprietà, e in particolare facilita la digestione.

Anche questi saranno ottimi per digerire… ma non tutto. Certe cose proprio non vogliamo né possiamo digerirle. Le ingiustizie, la violenza, la corruzione, le piccole e grandi forme d’illegalità che incontriamo nella vita di tutti i giorni: dobbiamo sentircele sempre “sullo stomaco”, come uno stimolo a darci da fare per contrastarle. Liberare le terre per liberare le persone. Le mafie non hanno rispetto della terra, che devastano con l’abusivismo edilizio e i traffici di rifiuti. Soprattutto, non hanno rispetto delle persone: Sono loro a gestire lo sfruttamento dei lavoratori immigrati, più vulnerabili e quindi più facilmente piegabili alle logiche del silenzio e della sottomissione. I fatti di Rosarno, sui quali questi giorni si comincia a fare luce, lo dimostrano una volta di più.