31 agosto 2009

Nord e Sud: i legami e la storia



A 150 anni dall'Unità d'Italia, sono in molti a sostenere che il Mezzogiorno, l'Italia del Sud costituisce una realtà molto diversificata, complessa, quasi una monade a se stante. In realtà, secondo lo storico Giuseppe Galasso il suo radicamento storico è di lunga durata, risalendo al Medioevo. La distinzione di antica tra Nord e Sud non implica affatto una divario incolmabile, poiché già otto secoli fa vi era la coscienza diffusa di una comune identità italiana. La sua posizione può apparire «inattuale» di fronte alle crescenti spinte localistiche, ma s'inserisce tempestivamente nelle discussioni sui 150 anni dell'Unità d'Italia: un dibattito cui lo storico napoletano porta il suo contributo con la ripubblicazione aggiornata di vari scritti, raccolti in due volumi. Il primo s'intitola Medioevo euro-mediterraneo e Mezzogiorno d'Italia da Giustiniano a Federico II (Laterza) ed esplora le remote radici del problema, il secondo L'altra Europa chiarisce invece che l'autore inquadra la peculiarità meridionale nel contesto della storia europea. Galasso non ama la teoria del pensiero meridiano, secondo la quale il sud sarebbe depositario di una civiltà alternativa alla modernità occidentale: "E' una visione contraddetta dai fatti". Non è affatto vero che il Sud sia immobile, fermo a un mitico pensiero meridiano. I meridionali, quando emigrano, non vanno in cerca di ambienti rurali, ma si addensano nelle grandi metropoli, quanto di più opposto vi sia al pensiero meridiano. Adesso alcuni sostenitori di questa teoria sono costretti a costretti a ripensarla, cercano una conciliazione tra meridianità e modernità. Ma sono solo esercizi verbali». Invece studiosi anglosassoni, come Edward Banfield e Robert Putnam, individuano nel «familismo amorale» o nella carenza di senso civico la chiave della questione meridionale. Ma non convincono Galasso: «Io ho voluto fare opera di storico e i miei volumi di cui si parla sono, infatti, tessuti di saggi e ricerche di carattere assolutamente e del tutto storico, e lo si vede subito dai loro indici e relativi argomenti. Proprio la storia porta a osservare che il particolarismo e la mancanza di una forte religione civile sono in gran paite un segno distintivo di tutta l'Italia, non solo del Sud. In effetti, questi autori mancano di senso storico: immobilizzano una realtà che ha conosciuto fasi e vicende diverse e presenta tuttora una grande varietà di vita materiale e morale, la cui complessità non è riconducibile a un singolo fattore. D'altronde tempo fa si riteneva ormai in via di superamento la questione meridionale: Un errore clamoroso — commenta Galasso — frutto di una illusione comprovata col fatto che per alcuni anni il Sud aveva superato il Nord in quanto a crescita del Pil e delle esportazioni. Coloro che allora esaltavano le virtù di un Mezzogiorno lanciato sulla via dello sviluppo, liberato dalle pastoie dell'ideologia meridionalista, sono spesso gli stessi che ora levano alte lamentazioni sulle difficoltà del Sud». Un nuovo rischio si affaccia all'orizzonte? «Temo una segregazione politica della questione meridionale, per molti versi già in atto. Si stanziano dei fondi per il Sud Sud, magari si propone di creare una nuova agenzia che se ne occupi, ma il tutto è visto come un problema settoriale e locale, al di fuori dei suoi nessi in Italia e in Europa. Invece bisogna che l'indirizzo politico generale, pensato su scala nazionale, contempli anche le esigenze del Mezzogiorno. Il migliore meridionalismo è sempre stato attento anche al carattere nazionale della questione meridionale. E oggi non può non guardare alla "questione settentrionale", al pericolo cioè che l'Italia intera rimanga indietro rispetto all'Europa, se non cura una sua ulteriore e ampia modernizzazione e un reale superamento dell'arretratezza meridionale, trasformandola da un peso in un fattore di potenziamento generale del Paese». Perciò Galasso giudica deleteria l'idea di un partito del Sud: «U giorno in cui la causa del Mezzogiorno fosse rimessa all'iniziativa di un partito regionale, conterebbe ancora meno di oggi. Non credo del resto che si possa costituire alcunché di valido assemblando i frammenti eterogenei di partiti vecchi o scomparsi che oggi agitano la bandiera del Sud. L'esempio della Lega è fuorviante, perché si tratta di una forza nuova, espressione delle regioni più ricche e sviluppate. Una cosa è dare voce ai distretti industriali della Lombardia e del Veneto, un'altra è rappresentare le aree depresse del Mezzogiorno». (estratti del Corriere della Sera 31/08/'09 p.33)

30 agosto 2009

Fondi neri


"La questione del Comune di Fondi è una questione nazionale dove e' in gioco la credibilità e la coerenza del nostro paese. La prima mafia da combattere e' quella delle parole, perché a parole ci sono sempre tutti. Il problema e' dare coerenza tra quello che è stato scritto sul pacchetto sicurezza e la concretizzazione della realta". Don Luigi Ciotti, presidente di Libera.

Paolo Biondani L'Espresso

Gola Profonda, l'anonimo funzionario dell'Fbi che portò alla luce lo scandalo Watergate, dava ai reporter del "Washington Post" un consiglio rimasto famoso: "Seguite la pista dei soldi". Nell'Italia di Papi sono cambiati anche gli scandali. E per capire i retroscena del mancato commissariamento del Comune di Fondi, cioè dell'incredibile stop del governo Berlusconi a un intervento antimafia sollecitato dal prefetto, dai magistrati, da tutte le forze di polizia e dallo stesso ministro Maroni, bisogna rassegnarsi a seguire un'altra pista: le amiche degli amici.
Fondi è il comune della provincia di Latina che ospita il più grande mercato ortofrutticolo italiano (in sigla, Mof). Vent'anni di inchieste, processi e condanne documentano pesantissime infiltrazioni mafiose che inquinano non solo l'economia, dall'agroalimentare all'edilizia, ma anche l'amministrazione comunale. Dall'ottobre 2008 il prefetto, Bruno Frattasi, ha chiesto per due volte di commissariare il comune.
L'ultima documentatissima richiesta (507 pagine) era stata condivisa dal ministro dell'Interno, il leghista Roberto Maroni. Ma il consiglio dei ministri l'ha prima bloccata e poi rispedita al prefetto. Nonostante i 17 arresti per mafia e appalti (seconda retata in un anno) ordinati in luglio dai magistrati di Roma. Rispondendo a una domanda di "Repubblica", Silvio Berlusconi ha spiegato così lo stop: "Sono intervenuti diversi ministri che hanno fatto notare come nessun esponente della giunta e del consiglio comunale sia mai stato raggiunto da un avviso di garanzia".
Il che è vero, almeno adesso, solo che la nomina di un commissario non richiede affatto di provare la responsabilità penale dei politici in carica. Anzi, proprio il nuovo pacchetto sicurezza, citato da Maroni come motivo per una nuova richiesta (che il prefetto dovrebbe ultimare in settembre), consente di intervenire anche sui dirigenti della burocrazia comunale. E a Fondi ce ne sono ben quattro già imputati.
Senza contare i due ex assessori che si sono dimessi solo dopo l'avviso di garanzia. E il capitolo della relazione Frattasi dedicato alla Silo srl, una società (finanziata da Sviluppo Italia) con tre titolari: il sindaco Luigi Parisella, suo cugino Luigi Peppe, che ha il fratello sotto accusa come prestanome della 'ndrangheta, e il senatore Claudio Fazzone, numero uno di Forza Italia a Latina.
"Questa non è una città mafiosa, l'inchiesta è un complotto contro il Partito delle Libertà": a Fondi nessuno si è stupito quando Fazzone, dopo mesi di voci sulle sue pressioni sul governo, ha attaccato carabinieri e prefettura. A far gridare allo scandalo l'opposizione di sinistra e tutte le associazioni antimafia è invece la scoperta che l'opinione del senatore di Latina è diventata la linea del governo.
Ma chi sono i "diversi ministri " tanto garantisti da bocciare l'antimafia? Le sedute del governo sono segrete. Ma a Fondi e Latina, tra caserme e movimenti antiracket, si ripetono gli stessi nomi di "ministri con legami personali, prima che politici" con queste terre ormai in bilico tra stato e crimine organizzato. La traccia più vistosa porta a Renato Brunetta.
Da qualche mese il ministro dell'Innovazione pubblica si fa fotografare con la sua "nuova fidanzata": "Si chiama Titti, ma non vi dico il cognome". La bionda arredatrice d'interni corrisponde all'identikit di Tiziana Giovannoni, sorella di Paola, che è la moglie del sindaco di Cisterna, Antonello Merolla.

In questo centro a 20 chilometri da Latina, Merolla ha vinto al primo turno (con il 55 per cento) benchè candidato in extremis, naturalmente con la benedizione di Fazzone. E con l'aiuto del ministro, schierato nei comizi a Cisterna. Dove Brunetta ha pure alluso a Titti, dichiarandosi già "imparentato" con il sindaco- cognato: "Il mio cuore è qui". E sempre Brunetta ha scelto i fortunati enti locali che, "primi in Italia", potranno beneficiare del "protocollo e-gov 2012" per l'efficienza amministrativa: Provincia di Latina e Comune di Cisterna.
Anche Altero Matteoli ha un legame forte con il feudo elettorale di Fazzone. Il ministro delle Infratrutture è sceso in campo a favore di Ilaria Bencivenni, candidata sindaco di Aprilia, uno dei comuni più popolosi della provincia, dopo furiose lotte interne chiuse da un diktat del solito Fazzone. Anche Ilaria ha potuto esibire nei comizi il suo "caro amico ministro".
Ma gli elettori non hanno premiato la protetta di Matteoli, che si è fermata al 32 per cento, contro il 67 raccolto dal candidato delle liste civiche. Ad Aprilia, per inciso, la cittadinanza è sempre più impaurita da un'escalation di omicidi di mafia, arresti di boss e sequestri di droga, armi ed esplosivi.
Se la posizione ufficiale di Matteoli e Brunetta resta un segreto del governo, Giorgia Meloni si è sbilanciata pubblicamente, in almeno un comizio, contro il commissariamento di Fondi. Anche per il giovane ministro, come si diceva nel '68, il personale è politico. Nicola Procaccini, che è il suo portavoce (nonchè fidanzato, stando al settimanale Panorama), è figlio di Maria Burani, ex parlamentare berlusconiana, e di Massimo Procaccini, ex giudice penale di Latina diventato avvocato.
Fazzone Grazie Tra i suoi clienti oggi spiccano grossisti del Mof come Vincenzo Garruzzo, arrestato per usura già l'anno scorso, nella prima retata contro la mafia a Fondi. Procaccini padre difende pure la moglie di Fazzone, a cui è intestata la villa di famiglia sequestrata perchè abusiva: il tribunale l'ha condannata a un anno (indultato) definendo illegale un condono ad personam varato dal comune.
Ma la lista degli amici di Fondi nonostante la mafia, riserva un'altra sorpresa. In questo paese con un corridoio sul mare è di casa anche il generale Roberto Speciale: l'ex comandante della Guardia di Finanza che, dimettendosi dopo una velenosa polemica con il governo Prodi, contribuì a limitare i danni per Berlusconi alle elezioni del 2006, diventando quindi un suo parlamentare.
Speciale è amico da una vita di Soledad Esposito, proprietaria del camping Holiday Village. Sequestrato da un pm di Latina, il campeggio di Fondi fu salvato da Fazzone, che protestò in tribunale, dopo di che il capo della procura ha avocato l'inchiesta, dissequestrato e archiviato. Il marito di Soledad, Paolo Maio, è titolare, tra l'altro, di una società di catering chiamata "Holiday Soledad srl". Speciale era stato inquisito per presunti abusi nei voli di Stato, usati tra l'altro per trasportare tre cassette di spigole dal Tirreno alle Alpi.
Assolto dalla Corte dei Conti del Lazio, che non ha ravvisato alcun danno alle casse pubbliche nei viaggi aerei offerti ai suoi amici oltre che al pesce, il generale ora attende solo l'ultimo processo. In questa richiesta di giudizio, la procura militare nomina l'impresa che consegnò le famose spigole aerotrasportate: "Holiday Soledad srl", guarda caso.

29 agosto 2009

Libero Grassi: la lotta al racket diventa maggiorenne


Il 29 agosto del 1991, alle 7.30 circa di una mattinata calda e torrida di quelle che solo l’estate palermitana è capace di offrire spesso e volentieri, l’imprenditore Libero Grassi viene ucciso a colpi di pistola, lungo un marciapiede di via Alfieri, nei pressi di casa sua. È solo quando i killer lo raggiungono, appena pochi minuti prima che si appresti ad aprire la sua fabbrica di pigiami e biancheria, come ogni mattina.

A sessantasette anni di età, la morte di quest’uomo coraggioso è una morte annunciata – anche questo come da macabro copione accade spesso e volentieri in Sicilia – dopo che la ribellione all’imposizione del pizzo mafioso, amplificata dai mass media nazionali, ne ha fatto un personaggio pubblico. La condanna a morte è un atto dovuto agli occhi dei mafiosi: già di per sé non sarebbe tollerabile il rifiuto al pagamento della protezione accordata dalle cosche, ma assolutamente insopportabile diventa il tentativo disperato ed isolato messo di trovare alleanze all’interno di quel mondo del commercio e dell’imprenditoria nell’azione di contrasto al racket. Un mondo del commercio e dell’imprenditoria che spesso e volentieri preferisce trovare un accordo con gli estorsori, come apprende sulla propria pelle in quei mesi la vittima annunciata.

La storia di Libero Grassi è per forza di cose riassumibile in quell’aggettivo divenuto nome di battesimo in ricordo dell’uccisione di Giacomo Matteotti, spazzato via dalla violenza di un regime fascista all’apice della sua potenza. Come Matteotti, Grassi reagisce alla violenza criminale con la parola che si fa gesto di ribellione, mettendo in atto una rivolta etica e morale, personale prima che pubblica, nei confronti di chi vuole trasformare i diritti in favore. Da sempre la mafia pratica un’estorsione diffusa e soffocante, proprio come mezzo principale per affermare la propria signoria su un determinato territorio, una sorta di presupposto fondamentale per poter svolgere in tranquillità i propri illeciti affari.

Un ricco bagaglio culturale, costruito con anni di studio e di lavoro che lo hanno portato fuori dalla sua amata Sicilia, nato a Catania ma cresciuto a Palermo, Libero Grassi quando fa ritorno in Sicilia scopre subito di essere un pesce fuor d’acqua, visto il contesto omertoso e complice che scopre con fastidio allignare soprattutto in quella borghesia che riteneva immune dal cancro mafioso. Gli anni della maturità li divide tra l’impegno imprenditoriale, avviato in compagnia della moglie Pina Maisano, e la politica attiva, altra passione che condivide con la donna che ha sposato. Un impegno agito prima nelle file del Partito Repubblicano e poi in quelle del Partito Radicale.

La sua Sigma, fabbrica messa in piedi con sudore e volontà, attirano ben presto le attenzioni della mafia, in ragione anche del fatturato che raggiunge i sette miliardi di lire. Siamo agli inizi degli anni Novanta, quando iniziano a manifestarsi le prime richieste estorsive. Fino a quel momento i mafiosi non si erano fatti avanti, forse per la vicinanza della fabbrica di famiglia alla vecchia vetreria di Don Masino Buscetta, in via Dante. Una sorta di protezione indiretta e non richiesta ovviamente; il famoso “boss dei due mondi” evidentemente incute soggezione solo a sentirne il nome e solo per questo vicinato fortuito la vedova Grassi si spiega l’assenza di pressioni criminali. Quando la sede della fabbrica viene trasferita in via Thaon di Revel, infatti, arrivano puntuali gli approcci estortivi e le minacce si fanno più incalzanti. Vengono prima rubate le buste paghe, poi le telefonate minatorie si fanno insistenti, sempre più insistenti. Di fronte a questa escalation, Grassi reagisce sempre e soltanto in unico modo, denunciando i fatti alla polizia, alla quale consegna anche simbolicamente le chiavi della fabbrica, per indicare platealmente la scelta di volere la tutela dello Stato e non dell’antistato mafioso, che si fa vivo, telefonicamente e sotto le sembianze di un fantomatico “geometra Anzalone”, per reclamare un contributo e minacciare rappresaglie fisiche contro la famiglia e l’attività economica di Grassi.

Matura in quei mesi la scelta di pubblicare sul “Giornale di Sicilia” una lettera con la quale manifesta a chiare lettere la sua volontà di andare fino in fondo contro il racket: “Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere”. Poche parole per esprimere una profonda etica del lavoro, finanche di stampo protestante visto il contesto di accomodamenti e collusioni che costituiscono la normalità dei rapporti tra impresa e mafia in terra di Sicilia.

È il 10 gennaio del 1991 quando la lettera pubblicata suscita discussioni e polemiche a non finire. Inizia così il tragico conto alla rovescia che vede impegnato Libero Grassi in una disperata corsa contro il tempo per aggregare consensi e trovare risposte alla sua scelta solitaria di contrastare il racket mafioso che opprime Palermo. Le reazioni però sono di segno opposto e non lasciano spazio ad alcuna solidarietà, anzi. I vertici dell’imprenditoria cittadina e regionale fanno a gara per sminuire la portata della coraggiosa denuncia pubblica. Accuse di protagonismo nel migliore dei casi – “una tammuriata” il commento più cinico – ma si arriva anche alla calunnia personale.

Opinione pubblica e politica stanno a guardare e ad accrescere lo stato di isolamento arriva proprio in quei mesi una clamorosa sentenza dal Tribunale di Catania che certifica paradossalmente la pacifica convivenza tra imprenditoria e mafia. Alcuni “cavalieri del lavoro”catanesi vengono assolti dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, in quanto il pagamento accordato al clan Santapaola in cambio di protezione sarebbe stato originato da un non ben definito “stato di necessità”: Grassi si sfoga durante un’assemblea studentesca, definendo scandalosa la sentenza, forse perché inizia veramente a comprendere che attorno a sé si sta creando il vuoto.

Concetti sui quali torna ampiamente e lucidamente nel corso dell’aprile 1991 negli studi di“Samarcanda” in onda su Rai Tre. Ai microfoni della trasmissione diretta da Michele Santoro, Grassi confessa tutta la sua amarezza, dichiarando tra l’altro: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”. Nel frattempo la polizia arresta alcuni uomini del clan Madonia, al quale si fanno risalire le richieste di estorsione. Dalle pagine de “L’Ora”, l’imprenditore sminuisce la sua scelta in termini di coraggio, riconducendola sul piano della convenienza in favore dei propri interessi economici. Nonostante tutto, la vicenda di Libero Grassi, suo malgrado, diventa l’emblema della ribellione al potere mafioso. La scelta di portare lo scontro in pubblico non piace alle cosche che ovviamente reagiscono come quando sono in difficoltà e l’omicidio resta l’unica misura rimasta a disposizione.

Dopo il barbaro asssassinio, il funerale in forma laica e la volontà espressa di non vedere affisse lapidi nel luogo dell’agguato sono scelte che la famiglia prende coraggiosamente per dare continuità alla coerenza manifestata in vita da Libero.

Quello che è avvenuto dopo quel 29 agosto 1991 è storia di questi anni recenti: la presa di coscienza della necessità di una battaglia antiracket per sviluppare il paese e liberarlo dal giogo mafioso; l’approvazione di una nuova normativa a sostegno dell’imprenditoria e la condanna di killer e mandanti dell’omicidio Grassi, ma anche e soprattutto una battaglia antiracket, che si radica in Sicilia a partire dall’esperienza pilota di Capo D’Orlando e che spinge un commerciante, Tano Grasso, prima in politica e poi come Commissario antiracket a raccogliere con passione e competenza il testimone del suo quasi omonimo, Libero Grassi. Nasce successivamente anche il FAI (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane) che raccoglie tutte le associazioni antiracket che nel frattempo nascono in ogni parte d’Italia. Tutti passi importanti che non devono però far dimenticare anche le tante ombre che accompagnano la battaglia contro il racket di questi anni, perché non tutti sembrano aver introiettato la lezione di chi ha pagato con la vita il suo coraggioso no al pizzo. Una politica disattenta inoltre non sempre sembra in grado di accompagnare i gesti coraggiosi di imprenditori e commercianti.

E arriviamo ai segnali che segnano l’avvicinamento del movimento antiracket alla maggiore età: sono infatti trascorsi ben diciotto anni dall’uccisione di Libero Grassi. Per una persona il raggiungimento dei diciotto anni d’età rappresentano non solo un traguardo ma anche un inizio. Il diciottesimo anno è sempre tempo di bilanci, con un occhio benevolo rivolto al futuro.

Oggi è lecito guardare con maggiore speranza al futuro, anche perché dal sacrificio di quell’uomo sono maturate scelte importanti che hanno nomi e volti. Sono i nomi e i volti dei giovani di “Addio Pizzo” e dell’associazione di imprenditori e commercianti palermitani “Libero Futuro”, ma anche dei vertici della Confindustria siciliana che sembrano, con un impegno quotidiano e senza sconti per nessuno, in grado di aprire una nuova stagione nel contrasto al racket mafioso.

“Splendido esempio di integrità morale e di elette virtù civiche, spinte sino all'estremo sacrificio”: così tra l’altro si legge nella motivazione che ha accompagnato la concessione della medaglia d’oro al valore civile in memoria di Libero Grassi. Riletto a diciotto anni di distanza, può sembrare un riconoscimento postumo forse tardivo, ma pur sempre importante. Dopo diciotto anni di battaglie e speranze, forse è davvero lecito sperare in un futuro migliore.

Lorenzo Frigerio (Libera - Milano)

27 agosto 2009

Antimafia, l'intelighentia dalla Bocca chiusa


La cifra di un ritardo culturale di una classe dirigente e dei suoi opinion leader regionali è data dalla modestia di un dibattito letterario e sociale, tutto agostano, così sterilmente stucchevole che vi si articola, da apparire perfino più surreale e paradossale di un film di Ciprì e Maresco.

Succede che un testo, elogiato fuori dai confini della Calabria, La Calabria brucia di Francesco Mauro Minervino venga incensato enfaticamente da una testata locale che ne esalta i tratti di originalità, la capacità di approfondimento minuziosa, l’analisi impietosa dei mali che affliggono un territorio, eleggendolo a opera di ingegno incommensurabile, indispensabile per comprendere l’abbrutimento post Duisburg della terra dei Bruzi.

La Calabria brucia, attraverso una simbologia ricercata, descrive un ambito territoriale saccheggiato, stuprato e depredato nella sua interezza da una classe politica imbelle e affarista, che agisce impunemente con la complicità di un popolo che confonde il diritto con il favore, in cui il massimo sforzo degli intellettuali progressisti, noncuranti del deserto dei Tartari a livello di produzione intellettuale, è proteso in difesa di rendite di posizione.

Alcuni passaggi, condivisibili o meno, sono di forte impatto icastico. Si legge, tra l'altro: "San Luca è un luogo arido e assurdo, un regno di morte che nello stesso tempo sa di arcaico e smisurato, di incompreso presente...San Luca è un paese brutto, spaventosamente brutto, brutto di una bruttezza speciale, non comune e forse tempo. (La Calabria brucia, dal capitolo Altri Fuochi, pp.23-24)....La piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Coriglianese, l'area commerciale lametina vicina all'aeroporto offrono il meglio delle concessionarie plurimarche di questa regione. Sono veri compound del lusso che ben rifiniti e lucidi si stagliano netti e decisi sui bordi delle superstrade statali e dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, perennemente cantierizzata nel suo tratto calabrese".

Pasquino Crupi è un intellettuale del popolo, con il gusto della provocazione, giammai fine a se stessa, e in maniera iperbolica, esaltando il Folkgeist sanlucoto, ha bollato dalle colonne di Calabria Ora, con un corsivo ferale ("Condoglianze da San Luca") il testo di Minervino come un "un capolavoro di scrittura sudicia, che provoca nausea, non soltanto per la totae falsificazione della realtà, ma anche per l'assenza di qualsivoglia impianto storicistico". Malgrado qualche intervento successivo, il dibattito, invocato invano dal direttore di Calabria Ora, Paolo Pollichieni, con la "chiamata alle armi" agli intellettuali, accusati di non parlarsi tra loro o di non parlare affatto non è lievitato più di tanto, anzi si è concluso con l'invio di una lettera-diffida del legale di Mauro Francesco Minervino in cui si polemizza con il giornale e si specifica che l'opera non è letteraria o sociologica e che la parte dedicata a San Luca è marginale e le polemiche tirate in ballo strumentali e speciose, con buona pace di quanti lo avevano promosso a vessillo apocalitticamente legalitario. (sic!)
A livello nazionale, se Dio vuole, non va tanto meglio. Giorgio Bocca su L'Espresso in un pezzo composito in cui affronta il problema delle connivenze tra mafia, politica e forze dell'ordine nell'ambito della vicenda Ciancimino, con le rivelazioni relative al caso Borsellino, conclude: "I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che in Sicilia un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo. È naturale, allora, che si creino delle tacite regole di coesistenza". In questo caso, senza entrare nel merito delle affermazioni, è venuto fuori un vero e proprio linciaggio da parte di politici bipartisan, un diluvio di dichiarazioni a sostegno della fedeltà dell'Arma, mentre delle firme prestigiose e degli intellettuali à la page nessuna traccia. Da questi temi soloni e tromboni si tengono prudentemente alla larga.

L'epopea videocratica di Silvio Berlusconi


E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere... Ciò che per esso è sacro non è che l'illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell'illusione, in modo tale che il colmo dell'illusione è anche il colmo del sacro.
(Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L'essenza del Cristianesimo).

La Rai ha rifiutato il trailer del film di Erik Gandini, Videocracy, che sarà presentato alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.

Difficile non comprendere le ragioni di un eccesso di zelo verso il sistema di potere televisivo del Grande Comunicatore, nonché presidente del Consiglio. Il memsmerismo della realtà e l'inabissamento delle notizie scomode, modello Minzolini, sono la sintesi di una realtà mediatica ossequiosa, per usare un eufemismo, verso il Cavaliere e i suoi sodali.

Il film, limitandosi alla sinossi: "sviluppa piuttosto una distanza critica singolare rispetto alle circostanze e ai personaggi rappresentati o ai materiali di repertorio selezionati e assemblati: distanza critica fatta di straniamento e profondo sdegno allo stesso tempo. E che nello spettatore italiano, convinto magari di aver già visto tutto ciò o di saperne anche di più, può sortire persino un prezioso effetto terapeutico". Nelle note di regia, redatte da Gandini, viene spiegato il significato di un documentario che si annuncia denso di polemiche per i suoi venticinque spettatori "In una videocrazia la chiave del potere è l’immagine. In Italia soltanto un uomo ha dominato le immagini per più di tre decenni. Prima magnate della TV, poi Presidente, Silvio Berlusconi ha creato un binomio perfetto caratterizzato da politica e intrattenimento televisivo, influenzando come nessun altro il contenuto della tv commerciale in Italia. I suoi canali televisivi, noti per l’eccessiva esposizione di ragazze seminude, sono considerati da molti uno specchio dei suoi gusti e della sua personalità".

Nella lettera di rifiuto indirizzata dalla Rai al distributore di Fandango Domenico Procacci, si legge che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell'attività di imprenditore televisivo".

Con l'avvento di tv e computer è finita la lunga epoca del "sapiens" che si formava soprattutto leggendo. La neocivilizzazione orwelliana imposta dalla Tv, in particolar modo la tv commerciale, mista a ha cambiato irrimediabilmente il modo di ragionare delle persone comuni, modificando il pensiero analitico, portando a un impoverimento del capire. Trent'anni di donne scosciate, nudi seducenti, procacui e in abiti discinti hanno lobotomizzato gli italiani. In Italia i meccanismi di emulazione, i famosi quindici minuti di celebrità previsti da Wahrol, le chiavi dell'apparire sono stati dettati da un'industria culturale duopolistica, caratterizzata da un'esaltazione degli istinti più bassi e primordiali, di cui, un personaggio come Fabrizio Corona è una delle esemplificazioni più becere. Non è l'unico colpevole beninteso e non si tratta di una tesi intellettualistica. E' opinione condivisa tra i più insigni studiosi e massmediologici. Sua Emittenza (con la berlusconizzazione che ne è derivata) e le sue televisioni hanno esercitato una influenza precipua di nella deculturazione italiana con la spettacolarizzazione deteriore delle pulsioni più bieche che attraversano la società. Il velinismo non è che una componente di questo sistema di valori.

26 agosto 2009

Caro Enzo Baldoni...


Caro Enzo Baldoni,
noi non ci conosciamo direttamente (abbiamo tuttavia molti amici in comune, nei giornali e nello spettacolo), ma confidiamo che in questi anni (stiamo per toccare il quinto anniversario della tua uccisione) tu abbia capito quanto ti siamo amici e con quanta convinzione abbiamo perorato la causa della restituzione dei tuoi resti ai tuoi familiari. Due anni fa, Ottavia, rendendosi portavoce di Articolo 21, mise un appello nelle mani del presidente della Repubblica e Giorgio Napolitano non impiegò molto a rilanciare la richiesta, affinché i tuoi familiari possano darti sepoltura e abbiano una tomba su cui piangere (o magari anche sorridere pensando con te a storie che soltanto voi conoscete...).
Niente. Non è successo niente. Dicevano che i tuoi resti erano stati identificati. E poi? Chi deve occuparsene? Il ministero degli Esteri? Che si sappia, l'ingualcibile ministro Frattini (che era alla Farnesina anche ai tempi della tua esecuzione) aveva pensato a una missione in Iran alla vigilia di quelle belle elezioni, non all'Iraq. Il ministero della Difesa? Che si sappia il corrusco ministro La Russa è impegnato a contare i militari che deve prestare a Maroni per la nostra sicurezza quotidiana, non a promuovere operazioni di recupero in regioni lontane.
Insomma, caro Enzo, cerca di portare pazienza, questa è l'Italia d'oggi. Michael Scott Speicher, il primo caduto della prima guerra del Golfo (quella scatenata da Bush padre contro Saddam Hussein), un "missing in action" che agli Usa bruciava parecchio, è stato identificato e riportato a casa 18 anni e mezzo dopo che la contraerea irachena aveva abbattuto il suo caccia F/a-18 Hornet. Lui in Iraq faceva la guerra, tu in Iraq facevi la pace e ti ripromettevi di raccontarla. Chissà se per il nostro esecutivo tu, appassionato di informazione libera, vali quanto vale per i suoi un pilota della Marina americana. Noi speriamo di più. Senno ci tocca aspettare fino al 2022.

Ottavia Piccolo e Claudio Rossoni

Football factory, la tessera del tifoso e la follia hooligaans


Citando Tacito ("Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace") e parlando del calo della violenza negli stadi nostrani, Gianni Mura nella sua rubrica "Sette giorni di cattivi pensieri" su Repubblica di domenica 24 agosto aveva criticato la politica del Viminale e le restrizioni molto discriminanti anche per il tifo non organizzato. Le nuove normative, con l'introduzione della tessera per i supporter in trasferta, insomma non favoriscono l'afflusso delle famiglie negli spalti sempre più vuoti della Serie A (uno degli aspetti del flop del calcio).

La tessera per il tifoso è una schedatura, che ghettizza una maggioranza per arginare (questo è opinabile) una maggioranza. A questo punto sarebbe opportuno che Maroni e Galliani con un comunicato congiunto dicessero: "Vogliamo vedere le famiglie seguire le partite solo dalla Tv". In tema di violenza negli stadi, spesso si cita ad exemplum il modello inglese nell'affrontare le emergenze. Poi dopo quattro anni di astinenza basta un West Ham-Millwall per far piombare il Regno Unito nell'incubo pretatcheriano della follia hooligaans. Durante il match, a ogni goal del West Ham forze dell'ordine e stewards hanno faticato a contenere i disordini dei supporter londinesi e per riportare la calma.Scene a cui non si era soliti più assistere. Secondo Scotland Yard era tutto premeditato tra due tifoserie che si odiano e anche la compulsiva stampa inglese è sotto choc. Incubi che ritornano. Le ricette mirabolanti non esistono.

06 agosto 2009

Il cappio del giornalismo



Chi fa il giornalista deve essere animato da furore dietrologo, paranoico, impavido, per altri versi interpretare il ruolo di iena-ficcanaso. In una significativa intervista rilasciata al mensile "Il Mucchio Selvaggio" Paride Leporace, autore del libro Toghe rosso sangue direttore del Quotidiano della Basilicata (già a capo della testata Calabria Ora) fornisce delle indicazioni importanti sui condizionamenti che insistono sull'attività giornalistica di ogni giorno, specie quando riguardano una piccola testata del Sud Italia.

"Il giornale lo devi vendere alla classe dirigente locale che non può essere un bersaglio continuo della testata, altrimenti ti isolano", rivela Leporace.

E ancora incalzato dall'eccentrico Max Stefani:"Ma allora al Sud quali rischi si incontrano ad affrontare certi argomenti?". Leporace risponde senza indugi: "Soprattutto le querele. Sul fronte mafiosi la Basilicata è tranquilla. In Calabria devi stare attento ai piccoli capirioni. Possono essere pericolosi. I boss si muovono diversamente. I peggiori sono i colletti bianchi con buoni avvocati".

I giornali vivono di raccolta pubblicitaria e sovvenzionamenti pubblici; le vendite stanno diventando una voce secondaria nei bilanci delle testate, che vengono gestiti come aziende brandizzate. Per addomesticare un giornale ostile, indirettamente si possono erogare dei contributi per piegare perfino le argomentazioni degli editoriali più spigolosi ed enfatizzare le iniziative più irrilevanti, facendole assurgere a svolte epocali. Per il popolo bue l'ignoranza è forza.

I giornali sono diventati un immenso blob, la loro sopravvivenza minata dall'avanzata del web, dove si possono ancora reperire sacche di informazione autonoma e non militarizzata. Altro che ultima trincea della democrazia.

05 agosto 2009

Veleni in vena e rifiuti tossici interrati


Gela non è tristemente famosa soltanto per essere amministrata dal sindaco (di recente approdato al Partito democratico) Rosario Crocetta, oggetto nel tempo di ripetuti attentati da parte della Stidda e divenuto europarlamentare, a seguito di una mobilitazione di uno di Giuseppe Lumia, uno dei più impegnati sul versante antimafia.

Il centro siculo può vantarsi di un altro mesto primato. Come rivela una ricerca pubblicata sull'Espresso l'area di Gela risulta una cloaca di veleni, una delle più inquinate del mondo (neanche questa, a onor del vero, è una grossa novità).

L'elemento sconcertante è che l'Organizzazione mondiale della sanità ha scoperto che nelle vene degli abitanti scorre anche arsenico. Il biomonitoraggio (ad opera del Cnr, durato alcuni mesi) ha dato risultati choccanti: il sangue del 20 per cento del campione, composto in tutto da 262 persone, è pieno di veleno. Oltre all'arsenico ci sono tracce di rame, piombo, cadmio e mercurio. Non si tratta di operai esposti sul lavoro, ma di casalinghe, impiegati, giovani sotto i 44 anni. Residenti a Gela, Niscemi e Butera. Nelle loro urine sono stati trovati livelli di arsenico superiori del 1.600 per cento al tasso-limite. Facendo una proporzione sul totale dei residenti, a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi più di 20 mila.

Chissà quante componenti nocive, contenute in seno alle tante navi inabissate lungo le coste del Meridione d'Italia, o nei rifiuti interrati nelle montagne, seppelliti negli anfratti più reconditi delle catene montuose, sono finite in circolo nel sangue degli abitanti di queste lande desolate abbandonate al loro vituperato destino.

Ma forse non si può dire pubblicamente, per questioni di allarmismo sociale e in quanto contrario agli interessi del turismo.

Basta poco per rallegrarsi. Si legga in proposito il pamplhet edito per la casa editrice Verde Nera, Navi a perdere di Carlo Lucarelli.Può sembrare dietrologia o "diffusione di notizie false e tendenziose" (art.656 c.p.), speriamo che negli anni a venire non si riveli una truce realtà, a lungo mistificata.

04 agosto 2009

Memorie estorte in questo maledetto, assurdo Belpaese


Don Diana è stato ucciso per il suo impegno contro i clan. Ribadirlo significa ribadire che l'Italia è sulle figure come la sua che fonda la fiducia nella possibilità di cambiamento e nel sogno di giustizia. Roberto Saviano

L'avvocato Gaetano Pecorella, già difensore dei collettivi autonomisti negli anni '70 ha ritrattato le dichiarazioni (l'eterogenesi dei fini ai tempi della massomafia), dopo il clamore suscitato e gli interventi di numerose associazioni antimafia circa il movente ancora incerto sulla morte di don Giuseppe Diana. "Mi scuso se ho infangato la memoria del sacrificio di don Diana, ha asserito il parlamentare del Pdl.

E’ un gioco antico (ma non per questo meno doloroso) il dubbio che cammina sul bordo della delazione per le vittime di mafia, scrive l'attore Giulio Cavalli.

Mentre era presidente della commissione Giustizia della Camera, Nunzio De Falco, boss di camorra imputato e poi condannato come mandante dell'omicidio di don Peppino Diana era difeso da Gaetano Pecorella. Una figura istituzionale non dovrebbe forse astenersi, per non far perdere credibilità alle istituzioni, da simili esperienze professionali? Senza retorica: che razza di paese è quello in cui i mafiosi sono definiti eroi, mentre le vittime di mafia sono uccise più volte?

03 agosto 2009

Mezzogiorno e assistenzialismo


Il Sud zavorra dell'Italia a due velocità, sbeffeggiato dalle rivendicazioni autonomiste della Lega Nord e dalle consuete accuse di sperperare i fondi, disperatamente confinato in una condizione di perenne inefficienza e arretratezza. La vicenda dei fondi Fas denota anche la crisi dello stato nazionale, tara storica di un processo di unificazione tardivo, quantomeno abbastanza recente.

Una classe dirigente, spesso rapace e imbelle, che ha dissipato risorse comunitarie, fondi della 488 (i soggetti che beneficiano dei sovvenzionamenti sono quasi sempre legati con un sottile doppio filo alla criminalità organizzata), trasferimenti statali ha fatto da sponda alla delegittimazione del Mezzogiorno.

La percezione esterna della terra di diavoli abitata da Angeli (secondo la definizione di Benedetto Croce) sconta questo retaggio storico. Le ultime stime confermano la fuga di cervelli, che impoverisce il tessuto sociale e fa mancare quelle risorse che potrebbero mandare in corto circuito il clientelismo politico, che autoalimentandosi paralizza la crescita sociale ed economica del Meridione, e il suo ruolo di mercato di sbocco a vocazione assistenziale. Fin qui nulla di nuovo.

Negli ultimi dieci anni, secondo la Cgia di Mestre, è notevolmente aumentato il saldo pro capite nel Sud - la differenza tra quanto versano in termini di tasse e contributi alle amministrazioni pubbliche e quanto ricevono in termini di spesa pubblica i cittadini italiani - e la crescita è stata in gran parte aiutata dalle Regioni del Centro.

Negli ultimi 10 anni il divario Nord/Sud è aumentato a vantaggio di quest'ultimo. Se nel 2007 ciascun cittadino residente nelle Regioni ordinarie del Nord presenta un saldo di 5.295 euro - ovvero paga molte più tasse e contributi (precisamente 16.670 euro) di quanto riceve in termini di spesa (11.376 euro) quelli del Centro presentano un «differenziale» più contenuto pari, comunque, a 3.459 euro. Se anche per le regioni a Statuto speciale del Nord il dato resta positivo (907 euro pro capite), la situazione cambia segno quando si analizzano i risultati delle Regioni meridionali.

Dalla fotografia che emerge dalla lettura dei dati riferiti al 2007 quella del Sud si pone come un'economia al traino dei trasferimenti pubblici. La situazione al 1997 - i dati sono stati attualizzati ai valori 2007 attraverso l'impiego dell'apposito coefficiente di rivalutazione monetaria Istat - indica che se per le regioni ordinarie del Nord il quadro rimane pressocchè stabile (saldo pari a 5.278 euro pro capite contro i 5.295 del 2007), e migliora sensibilmente per le regioni a statuto speciale: per la Sicilia e la Sardegna il residuo fiscale si attesta sui 2.063 euro pro capite.

In questa macro area nel 1997 il saldo era pari a 1.958 euro, 10 anni dopo ha toccato, come dicevamo, i 3.459 euro. Il confronto tra il 2007 e il 1997 premia, invece, il Mezzogiorno. Se nel 1997 il saldo delle regioni ordinarie era di segno negativo pari a 900 euro pro capite (vale a dire che i trasferimenti ricevuti erano ben superiori delle imposte pagate), nel 2007 il residuo fiscale ha toccato, come ricordavamo sopra, la soglia dei 1.061 euro.

01 agosto 2009

Il giro del mondo il 15mila Starbucks


Globetrotter per il franchising della tazzina, se il don Raffaele (Cutolo) di Fabrizio De André magnificava la miscela carceraria nelle sue varianti, a qualcuno piace “il beverone” a stelle e strisce, fino a spingerlo a egregie cose. De gustibus non disputandum esse.

La passione per il chicco d’oro può condurre a intraprendere epopee inenarrabili. Sulla Frankfurter Allgmeine Zeitung si legge di un giramondo caffettano, tale Winter Leben, il Marco Polo che si è dato come missione di fare tappa nei 15mila punti vendita di Starbucks in tutto il mondo. Per ora ha toccato quasi diecimila (9708) esercizi della multinazionale del caffè. Altre seimila pause-degustazione caffè lo attendono.